da qui
Bisognerebbe risolvere una volta per tutte la questione di Amerigo, anche perché le stanze d’ospedale si riempiono di personaggi e si rischia l’inflazione. Non potrebbe morire sull’asfalto, tra la folla assiepata nonostante gli inviti a fare spazio, a non sottrarre aria all’investito, a usare discrezione? La massa, per Cesare, ha sempre qualcosa di inumano: è pigra, passiva, assetata di emozioni, pronta a muoversi in branco per schivare la fatica del pensiero. Gode se assiste alla sofferenza altrui, lo insegna anche la storia: gli spettacoli dei gladiatori nell’arena, la corrida con gli opposti drammi – il toro abbattuto nel suo sangue, trafitto da banderillas colorate, o il torero a mani e bocca aperte nell’urlo di dolore per le spade d’osso che lo passano da parte a parte, come lo shofar nel giorno del giudizio. E’ il momento in cui Cesare apprezza lo scatto della bestia rivolta verso le tribune, il volo sulla staccionata e l’atterraggio sugli spettatori che retrocedono a ventaglio, come se una forza superiore li risucchiasse nel gorgo del terrore. Solo allora la membrana invisibile della pigrizia cede alla verità di un’esistenza compromessa, faccia a faccia col destino, dove non è più permesso considerare la morte un’attrazione originale, dove le corna insanguinate dell’animale inferocito sono il segno che la vita chiede il conto, costringe a misurarsi con se stessi, impedisce di trovare un delegato che soffra al posto nostro e guardi negli occhi il drago: no, stavolta tocca a noi. Cesare è convinto che al romanzo competa di orientare alla vita, che lo scrittore abbia il compito di ridare dignità, di trasformare il rospo nel principe azzurro delle favole. Forse è per questo che Amerigo non muore: per non promuovere l’ignavia di una folla in cerca di gladiatori e di toreri.