Pubblicato da fabrizio centofanti su maggio 11, 2012
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La notte è piena di luci, stelle che s’inseguono come anime in pena, oppure innamorate, perché l’amore è sempre anche una pena, un dolore immedicabile, una ferita che si apre nella corteccia dura del mondo, nell’insensibilità della gente che critica e giudica, nel coltello che affonda nella piaga, nell’assenza di pietà che segna il mondo con un marchio indelebile, di cui ci si vanta al bar, nelle chiacchiere tra amici, nella perdita di tempo che è la vita. La notte è piena di stelle, anzi, di torce, accendini, tutto ciò che è in grado di lasciare scie di luce nel buio traforato, perforato, trafitto dello stadio. La band sta cantando Angeli, nel silenzio irreale della folla, tra braccia che si alzano e oscillano come bandiere, o alberi di nave, perché nel mare della gente galleggia un sentimento indefinibile, un timore, un rispetto, un abbandono; sanno tutti che la canzone è dedicata a un amico che ora non c’è più, e ogni luce che nuota nel gorgo nero della notte potrebbe essere lo spirito che vaga in cerca della propria musica, un angelo caduto sulla terra perché la preferisce al cielo. Forse è per questo che Futura non riesce a staccare gli occhi azzurri e verdi da quelli di Fofner, come vedesse in lui la presenza di qualcosa che ha perduto, nel giorno in cui la madre non era più sua madre e lei non era più la figlia e niente era più niente, e quando tocchi il fondo c’è un solo desiderio, risalire dall’abisso, arrivare a pelo d’acqua per poter di nuovo respirare e una certa sera sembra che sia vero, quando a pelo d’acqua ci sono due occhi grandi come laghi, che non sai se nuoterai o ci affogherai e qualcuno intona una musica triste e misteriosa come il mare e sei convinta che oggi, proprio oggi, la band stia suonando per te, solo per te, che un angelo caduto per la nostalgia ti stia guardando dritto negli occhi, mentre Stef Burns fa miracoli con la chitarra elettrica, e una via lattea di torce, telefoni, accendini, riempie la notte di richiami, come se gli angeli del cielo avessero per una volta, per una volta sola, deciso di venire da te, proprio da te, che sei emersa per un attimo, hai preso una boccata d’aria in mezzo alla povere da sparo, all’irruzione improvvisa nelle banche, all’ordine di mettere le mani sulla testa, alla mossa imprudente dell’impiegato allo sportello, alla pistola che fa fuoco, a un angelo caduto in una pozza di sangue che sussurra un’ultima parola e non c’è più: una parola che rimane scritta, magari sul bordo in cemento di un pontile, un nome strano, la dichiarazione di un amore il cui confine è il mare, battuto dal vento caldo di maggio: Fofner, sei la mia vita.
