Quando ho iniziato a fare questo lavoro circa 6 anni fa non pensavo davvero che ne sarei stata capace. Facevo casino, io: ero (e sono) sbadata, maldestra e quando c’ho la luna storta difficilmente mi si raddrizza a comando (anzi, quasi mai). Non avrei scommesso su di me, nè tanto meno sulla mia resistenza nel solito posto per così tanti anni. E invece qualcuno l’ha fatto: mi ha teso una mano, offerto un posto di lavoro…ed una seconda casa! Doveva essere una piccola parentesi in un momento di transizione (e di depressione, diciamocela tutta) che si è trasformata in una preziosa esperienza di vita e di lavoro. E così sono passata da fare “l’imprenditrice” a fare la cameriera. Poche menate, nel mondo esistono quelli che hanno bisogno di lavorare e quelli che campano di rendita o sulle spalle di altri. E poi ci sono quelli che, per non tornare ad essere schiavi aziendali con stipendi minimi e orari allucinanti, decidono di farsi il mazzo triplo pur di mantenere la propria “libertà“, soprattutto quella di seguire i propri sogni…
Ed i sogni passano soprattutto dalla realtà. I miei sono passati dall’Osteria Dei Benci per sei lunghi anni. Anni in cui ho imparato un mestiere del quale non sapevo nulla (e sia ben chiaro che fare il cameriere non vuol dire portare i piatti a tavola). Da come si scrive una comanda ai numeri dei tavoli che non mi entravano mai in testa, dallo spaccare un paio di bicchieri a sera a spaccarne uno ogni tanto, da non capirci un cazzo di vini fino a riuscire a consigliarli (ovviamente secondo il mio gusto, non perchè ne capisca qualcosa davvero), dal decorare i dolci fino a portare 4 piatti insieme senza rovesciarli, dal sapere riconoscere un russo da uno svedese o, meglio ancora, un cinese da un giapponese e riuscirgli a porgere il menu nella sua lingua ricevendo un’esclamazione idiota in segno di approvazione (son soddisfazioni). Anni in cui ho messo a dura prova la mia (scarsa) pazienza, perchè il genere umano è rompipalle a prescindere, soprattutto quando mette il naso fuori dalla propria casa. Ed avere a che fare con il pubblico è un’arte sottile, che prevede occhio, orecchio, nozioni di psicologia di base e l’interruttore per un sorriso sempre pronto a portata di mano. Tutte cose che ho dovuto affinare con il tempo, perchè io sono sempre stata un po’ rustica…
Anni in cui ho imparato a lavorare in squadra…anzi, a fare spogliatoio con la squadra di maschiacci che ho avuto intorno. Colleghi-fratelli, un capo che più volte ho chiamato “mamma“, il capo-cucina che è il “Babbo” di tutti: mi hanno fatto ridere, mi hanno fatto incazzare, mi hanno preso in giro, mi hanno insegnato un sacco di cose, mi hanno anche fatto piangere, mi hanno fatto spazzare quasi sempre (senza allusioni sessuali, che io sono professionale e, nonostante i miei colleghi siano oggettivamente gnocchi, non c’ho mai provato con nessuno…ma me li sono sempre strizzati tutti), mi hanno fatto partacce assortite, mi hanno sbriciolato con i loro discorsi sul calcio, mi hanno indubbiamente ispirato per i miei libri (anche con le loro osservazioni sul mondo femminile, materiale pornografico annesso), ma soprattutto mi hanno sopportato…che lavorare con me è assolutamente meraviglioso e divertente, ma a volte anche difficile. Meno male che, in questo mucchio di testosterone, ho avuto anche delle donne accanto con cui spettegolare in santa pace di cellulite, trombamici, cicli ormonali, progetti futuri…e farsi due shottini ogni tanto!
Anni in cui mi sono fatta un gran culo, in cui mi sono esaurita e anche divertita, in cui ho messo alla prova il mio fisico, i miei nervi, la mia forza di volontà; in cui ho taciuto su questa mia attività ai miei genitori per un po’ perchè sapevo non avrebbero approvato, in cui ho capito che non mi piace per niente fare le pulizie, che per cucinare ci vuole passione e che se c’è qualcuno che cucina per me lo preferisco. Anni in cui ho avuto la conferma che non esistono lavori di serie “A” e di serie “B”, ma solo lavori fatti bene o fatti male, e che non sai mai chi hai davanti, quindi nel dubbio, il rispetto e l’educazione sono sempre la migliore risposta. Anni in cui ho avuto a che fare con millemila clienti. Clienti maleducati, clienti amici, clienti gentili, clienti abituali, clienti che vorresti mandare in culo ma non puoi, clienti che erano miei clienti del negozio e che hanno fatto finta di non conoscermi, clienti vecchie che mi hanno fatto i complimenti per i capelli, clienti giovani che mi hanno importunato, clienti che mi hanno trattato come un’idiota, clienti che mi hanno apprezzato a voce alta, clienti che mi hanno fatto un ritratto, clienti che mi hanno lasciato grosse mance e clienti che mi hanno infamato su trip advisor. Clienti che mi hanno fatto capire come essere una brava cameriera. E anche come comportarmi da brava cliente. Perchè ogni cliente è una storia a sè. E per me, ogni storia raccolta è un piccolo pezzo che oggi, dopo 6 anni, mi porto via riponendo il grembiule almeno per un po’…
Lasciare l’Osteria oggi mi fa strano, la stessa sensazione di lasciare casa a 18 anni per andare a studiare fuori: l’emozione per quello che sarà si unisce alla tristezza delle piccole abitudini che già sai ti mancheranno; la sicurezza di un “nido” sicuro e protetto (anche se a volte un po’ stretto) fa a botte con l’emozione dell’ignoto, il tutto reso ancora più inquietante dalla domanda che aleggia in testa “starò facendo la scelta giusta?” (visto che non ho propriamente più 18 anni). Ma, in fondo, so che questa “casa“, per me, ci sarà sempre…
Ah, se stasera qualcuno passa di lì, può essere che si becchi il servizio che ho sempre sognato di fare (capo permettendo): quello freestyle, tipo “un giorno di ordinaria follia“, ma senza armi…;) E comunque, dopo questa esperienza, sono sempre più convinta che, una volta nella vita, qualche mese da cameriere lo dovrebbero fare tutti. E’ educativo. E terapeutico…fino a che non sbrocchi! :P