6 febbraio 1971: i Gruppi Archeologici d’Italia a Tuscania

Creato il 05 febbraio 2013 da Csunicorno

Il primo ricordo di Tuscania, in quella notte del 6 febbraio, è il fascio luminoso di un grande riflettore che frugava attraverso la porta principale nel buio di una città morta.

Lungo la strada poco più che ombre, avvolte in lunghe coperte, intorno ai bivacchi improvvisati. E con loro molti soldati. C’era un gran silenzio, rotto soltanto dal fiotto dei motori della fotoelettrica.

A Tarquinia avevamo incontrato alcuni dei nostri. Pieni di polvere e con gli occhi assonnati. «Tuscania non esiste più» ci avevano detto.

Erano accorsi quando a Tarquinia erano affluiti i primi scampati, i primi feriti. La seconda scossa li aveva colti nel cuore della città, mentre rimuovevano macerie al lume delle torce elettriche. E apprendemmo che a Tuscania, uno di noi, compagno di tante lotte per dare un significato attuale alle memorie della nostra terra, aveva perduto la giovane moglie e il figlioletto.

Il mattino del 7, un centinaio del Gruppo Romano e altri dei G. A. della Sabina e del Lazio meridionale, affluirono a Tuscania e si aggiunsero a quanti erano corsi già dalla notte e a quelli del Gruppo di Tarquinia.

«I miei ragazzi!» ci aveva salutato il Soprintendente e aveva impartito le prime direttive. A Santa Maria, a San Pietro, ai magazzini, al museo, a fare la guardia alle rovine per impedire che l’ondata dei «curiosi» potesse aggiungere danni ai danni.

Passammo la domenica ai posti di blocco. Ma, a turno, entrammo nella città. Per i passaggi che noi soltanto conoscevamo, eludendo la sorveglianza dei carabinieri alle porte. E arrivammo laddove ancora nessun soccorritore era giunto, portando a molti dimenticati il primo aiuto.

Poi cominciarono le lunghe giornate e le lunghe notti, a recuperare il recuperabile: dai rosoni delle chiese, agli arredi sacri, ai magazzini della Soprintendenza, dai frammenti delle pitture dell’abside di San Pietro al trasloco del museo. Una settimana di lavoro, a fianco dei tecnici della Soprintendenza e degli uomini del Nucleo carabinieri per la tutela del patrimonio artistico.

Il G.A. Romano a Tuscania è tutto qui. E sarebbe ben poca cosa — quanti altri giovani, in altri campi, hanno operato a Tuscania? — se ciò non racchiudesse un profondo significato.

Una città morta, soffocata dalla vegetazione e ricoperta dalla terra, può essere nulla. Se gli uomini che l’abitarono si dispersero alla ricerca di nuove sedi, massi squadrati, le mura, gli archi forniranno dati tecnici agli studiosi, ma non parleranno più un linguaggio di vita.

Mentre laddove le generazioni degli uomini hanno mantenuto il focolare, laddove, seppur vago, resta lo spirito che innalzò chiese e palazzi e il motivo che li fece nascere, dove attraverso le leggende e le tradizioni ritorna l’eco di un passato la forma ma non la sostanza della sua validità, quella città, nel momento in cui un evento qualsiasi sembra condannarla, ti chiama come un agonizzante al suo capezzale. E se vi riconosci qualcosa che ti appartiene, qualcosa che non vuoi e non devi perdere, non sarà una veglia, ma una lotta per impedire che tutto finisca senza un ricordo, senza una speranza di ritorno.

Tuscania era ed è stato tutto ciò, anche perché in quelle chiese, in quelle mura, in quei palazzi c’era qualcosa di più di una città. Era la nostra civiltà, eravamo noi stessi, generazione vecchia di secoli, che non poteva essere lasciata morire. E dovevamo dimostrare questa volontà.

Fra le rovine di Tuscania — e ben se n’è accorto chi ha vissuto le vicende del salvataggio di quel patrimonio artistico — si è manifestata una nuova archeologia, un nuovo modo di intendere l’archeologia.

Manifestata soltanto, perché in effetti tutto è cominciato lontano e da anni questo processo di rinnovamento si svolge silenzioso fra difficoltà e incomprensioni di ogni genere.

L’archeologia intesa come impegno culturale del cittadino, come impegno sociale. Comprende nell’intimo un qualcosa che non è valido soltanto come oggetto, ma che ci appartiene, perché studio dell’uomo prima che studio delle cose. L’uomo. Il monumento archeologico più importante, che racchiude in sé tutti i segreti e tutte le risposte, l’uomo era a Tuscania, in quelle mura, in quelle chiese. Il tempo aveva disperso soltanto i lustrini dei significati. Tuscania era nell’animo e negli occhi della gente che, insonne, affranta, aiutava a salvare le reliquie del proprio passato, memorie come cose vive, come impegno e presenza di rimanere quello che si era stato.

La campagna è verde e il sole che s’attarda sulle pietre delle mura e delle case è il sole della primavera.

Le pietre hanno riflessi di bronzo.

Il silenzio è tornato su questi colli, a vegliare le testimonianze dei secoli.

Il Marta, antico fiume, discende solenne. Il mare è lontano.

Anche i nostri fuochi che ardevano presso la grande basilica nelle fredde notti di febbraio, sono lontani. Un ricordo.

Su Tuscania è calata la cortina dell’oblio.

Gli sciacalli della notorietà a buon mercato, le prefiche delle sciagure nazionali sono tornati nelle loro tane, ma la città resta vietata agli uomini.

Hanno atteso che tutti i clamori si placassero per creare la città-museo.

Dieci, venti anni, non importa.

Una città-museo non si allestisce in un giorno.

Ludovico Magrini (1937-1991)

articolo tratto da © “Archeologia”, gennaio/marzo 1972 (dal sito dedicato a Ludovico Magrini)


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