Certo è che non alla diligenza degli uomini, ma alla Provvidenza benefica di Dio si deve attribuire il gran beneficio di conservarci nell’integrità del nostro essere, e immuni dalle pestilenze e da altri flagelli. E invero taluni dei poetici dello spirito (o spiriti poetici) poco si adoperavano per dare segni certi di una sicura destinazione nella patria celeste. Parevano piuttosto presi al diletto e al divertimento più che alla penitenza, a raccontarsi storielle, a scoppi di risa, a passarsi tra loro qualche fiasca di quello buono, a trascorrere le giornate in confronti e tenzoni di versi e novelle. Tale attitudine appariva agli occhi della gente del borgo propria di una brigata gioconda, non di scuola poetica, e fece sì che i poeti spiritistici (o spiriti poetici) incontrassero subito l’appellativo di Fabriciani, come coloro che tenevano su e, da homines fabri, rinforzavano lo spirito di Fabricius. O così i Fabriciani pensavano di sé.
I Fabriciani non erano tenuti per homines litterati. Non erano cercati dal comune cittadino per comporre discorsi di feste e celebrazioni. Raramente ricevevano inviti nelle corti dei signori, presso i de Bragancio, nei castelli in Este, in Baxano, in Aslo, in Cornuta, presso i Conti, ad allietare mense, nascite e sposalizi: per questo erano più adatti i giullari e i poeti cortigiani, che dittavano a comando come le bestie ammaestrate dell’imperatore Federigo obbedivano agli ordini degli ammaestratori, dicevano tra loro. Neppure ricevevano grandi somme di denaro dai borghesi per compilare novelle di svago e divertimento, e alcuni vivevano con lo stipendio e il comodato dello stazionario, e capitava che dei libri exemplati si facesse una copia in più, di nascosto e di straforo, per il maestro Iosephus e la libraria dello xenodochio. I Fabriciani sapevano essere rapidi copisti. Fabricius sosteneva che il mondo delle lettere comprate e vendute fosse una trappola, e diceva di essere felice di non abitarlo per mestiere. Dio esiste, si nota anche da questo.
Egli era convinto che il magistero dell’uomo di fede deve esprimere l’intima unione tra la parola di Dio e le parole e i discorsi degli uomini, e a motivo di questa intima unione, le parole e i discorsi umani devono avere forma bella e curata. Così come il Logos ha creato la natura e i nessi necessari, i discorsi umani, a imitazione di quello, creano il mondo dell’uomo e le rappresentazioni di esso, infinite opportunità di esercitare la libertà e fare del bene. Alcuni dei Fabriciani scuotevano allora la testa. «Graecum est, ergo non loquatur!», gridarono un giorno. Un paio di essi non disse nulla, ma in cuor loro domandarono «Quid est istud logos? Nescimus». Fabricius allora raccontò loro degli antropomorfiti: alcuni eretici antichi che volendo intendere ogni cosa detta di Dio nelle scritture, in senso letterale, immaginavano che egli avesse veri piedi e vere mani, come abbiamo noi – solo che quelli di Dio sono piedoni e manoni – fondendo tale opinione nel testo della Genesi dove si dice che Dio formò l’uomo secondo la propria immagine. Se Dio è così, concluse Fabricius, scappate via veloci, miei ingenuissimi confratelli, perché questo Dio vi parlerebbe con calcioni nelle terga e schiaffoni, grandi pacche sulle vostre zucche vuote!
Logos significa Parola, Verbo, amici miei – disse Fabricius – e la parola umana, imperfetta imitazione di quella divina, condivide con essa tuttavia l’essenza aerea, immateriale, del suo significato. E in un certo senso siamo noi i significati della Parola di Dio, spirito ridivenuto, per un breve tempo, breve quanto questa vita degli uomini, materia come carne, fragile come ogni umano progetto, compreso quello di storie, poesie e romanzi. Ma di questa fragilità occorre custodire le tracce vitali, e non arrendersi di fronte alla constatazione della morte, perché qualcuno dice che nemmeno in quel caso si può scrivere, a cuor leggero, la parola fine. La parola fine è una cosa seria, dà il senso a tutta la storia che precede, è importante la sua posizione, il suo modo.
(continua…)