Pubblicato da fabrizio centofanti su maggio 14, 2012
da qui
- Dimmi ancora di Sonia.
- E’ una storia strana. La figlia del dottore è enigmatica, per certi versi incomprensibile, come tutti i nati il 29 febbraio: originali, imprevedibili; come potrebbe essere altrimenti, visto che festeggiano un anno su quattro il loro compleanno?
Era un tuffo al cuore ogni volta che arrivavi davanti a casa sua. Sei tachicardico, ma in quei momenti ti sembrava di morire. Nell’ascensore ti ravvivavi i capelli, sistemavi la giacca, studiavi allo specchio lo sguardo che, secondo te, avrebbe potuto interessarla. Non finiva mai, quella salita: le immagini, i ricordi, si accavallavano fino a intasare mente e cuore, e quando apriva la porta eri confuso più di prima, ripassavi una parte che finivi sempre col dimenticare; e allora ti lasciavi andare, pronunciavi le prime parole che ti venivano alle labbra, che poi erano sempre accidenti, sei bellissima, o qualcosa di simile, e lei diventata tutta rossa, ma non avrebbe voluto, le piaceva restare sulle sue, come i nati il 29 febbraio, eterni insicuri, vorrei vedere te, a ricordarsi di esistere solo un anno ogni quattro, a ritrovarsi davanti l’assistente sociale che è peggio di un bambino difficile, pensa sempre ad altro, e tu glielo dici e lui risponde niente, non è niente, e non gli credi, non ti passa per la testa di dar credito a uno che una volta, a letto, ti ha chiamato col nome di Eleonora.
- Ti ha lasciato, per quel fatto?
- No, forse voleva vendicarsi.
In effetti era sparita. Poi, all’improvviso, la telefonata. Voleva venire. Le dici che l’avresti aspettata. Guardi attraverso le tendine in un giorno di maggio, stranamente freddo. La strada è deserta. Ogni tanto passa un bambino in bicicletta, un cane randagio, un gatto che si guarda intorno circospetto. Ci hai quasi rinunciato – un’ora di ritardo -, quando, in fondo alla piazzetta, finalmente appare. E’ tutta d’oro, i capelli lunghi le cadono sul petto, un vestito a fiori di quelli che mettevano le donne di paese e oggi, forse, non indossano più nemmeno loro. Dove l’avrà preso? Dalla madre? Era lei, in effetti, che ti si era affezionata a te più della figlia: capitava di frequente, per la faccia da bravo ragazzo, l’aria da partito ideale, per chi ancora non ti conosceva. Aspetti che suoni il campanello. Non le viene in mente di scusarsi, ti dice: andiamo sopra. Dalla finestra si vede il cedro gigante, il tuo amico più fedele, dalla prima media in poi. Non dice niente, ti sbottona la camicia. Avverti qualcosa nelle orecchie: una musica; da dove viene? E’ il terzo concerto di Rachmaninov. Sei a torso nudo, ti accarezza i peli del petto come fossero corde di violino. Ora batte le dita come su una tastiera, ricordi? Horowitz sembrava volare, le mani erano ali di farfalla, delicate e violente nello stesso tempo. Farfalle che s’inseguono e s’intrecciano, si posano con le zampe sottili sull’arcobaleno delle note, le guance rosse di Sonia che accarezzi lentamente, scendendo fino al collo, andando a cercare la chiusura lampo del vestito a fiori: devi fare uno sforzo per non pensarci dentro la madre, che forse ha il desiderio segreto di sposarti al posto della figlia. La musica è dolce, la sua pelle è liscia, senti che freme, mentre il pianista ricama lo spartito pieno di vortici e di svolte, di pause, di temi che appaiono e scompaiono e poi rispuntano di nuovo, come i seni che senti tra le mani e sembrano i frutti del cedro gigante, il tuo amico silenzioso. E’ nuda: una stella calda che bolle tra le mani; i violini attaccano un tema malinconico, all’incirca al diciottesimo minuto; vi lasciate scivolare sul letto e senti la sua carne che si apre, lo sguardo che pare accennare un’obiezione e tu le dici niente, non è niente, e mentre cerchi un varco le chiedi perché sei venuta, dopo tanto tempo? Lei batte le dita sulla schiena, la melodia più bella, i violini dilagano, il piano aderisce al loro manto steso sul lampadario di cristallo dell’orchestra, respira più forte, che domande fai, la musica rallenta, quasi si ferma, ma è per poco; ora è più veloce, forte, romantica, colpisce come un pugno nello stomaco, è dolce sentirla fino in fondo, all’apice del ventiquattresimo minuto e trenta secondi: non pensavi potesse succedere, che il paradiso fosse qui, davanti al cedro, il tuo amico a guardia del vestito a fiori della madre, chissà se lo saprà, se capirà che questa è l’ultima volta che vedrai sua figlia.