da qui
Simone Vangelis lotta fra la vita e la morte nel reparto del solito ospedale. Qualcuno potrebbe chiedersi perché chi ha bisogno di cure finisca invariabilmente al Sant’Eugenio, come se in tutta la città non ci fosse alternativa. E’ evidente che l’autore è legato a questo posto da ricordi che non danno tregua e ogni tanto si riaffacciano alla mente, provocando dolori più acuti di quelli di Vangelis, che respira a fatica, sovraccarico di aghi, tubi, macchine che segnano la pressione arteriosa e il ritmo del battito cardiaco. Gira e rigira, il dolore ha la stessa faccia e si medica nello stesso posto. E’ come quando ti sequestrano e chiedono il riscatto: cambia poco che tu sia rinchiuso in una stanza o in una fossa; ciò che desideri è comunque l’aria aperta, una voce che racconti la storia ascoltata da bambino, quando tua madre è capace di cacciare la paura che ti spezza il respiro e impedisce di dormire. Simone capisce solo adesso che la letteratura è scritta, ma può essere anche orale, fatta per essere letta ad alta voce nelle sere d’infanzia, nella camera coi letti a castello, i fratelli che dormono ignari dei pensieri che ti assalgono, i sogni che ritornano col viso dei compagni, il vestito a fiori della colf, la bocca impastata del cugino Michelino, con cui litighi sempre e ogni volta le prendi da tuo padre. Il libro letto ad alta voce pare sempre più bello: era così nella notte dei tempi, quando ascoltavano i racconti di Achille, figlio di Teti e di Peleo, i vaticinii di Cassandra, la bellezza di Elena e le astuzie imprevedibili di Ulisse; su un letto d’ospedale non c’è niente di meglio che lasciarsi affascinare dal racconto di duelli e di battaglie; consola pensare che ogni istante della storia è in bilico sulla stessa paura e lo stesso desiderio, che c’è sempre la voce di una madre o di una donna a rivelare il sogno che ti serve.