Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 21, 2011
da qui
Un destino legava indissolubilmente la storia di Malcolm e quella mia.
Aspettiamo le parole del nostro pastore.
Forse hai sognato, un giorno, che le frasi fossero mattoni, scale, il casco giallo che hai usato tante volte.
Aveva sei anni, quando uccisero il padre; non si seppe mai chi fossero i colpevoli.
Salutiamolo con un caloroso applauso.
Saltando di trabiccolo in trabiccolo, di piattaforma in piattaforma.
Fece di tutto, come c’era da aspettarsi: lasciò la scuola per i mestieri più umili; poi la droga, lo spaccio, le rapine.
Fratelli e sorelle, sono qui per dirvi che accuso l’uomo bianco. Accuso l’uomo bianco di essere il più grande assassino della terra; accuso l’uomo bianco di essere il più feroce rapinatore della terra.
Rischiavi di dimenticare di essere solo un operaio: ti sentivi piuttosto un trapezista.
Gli dettero dieci anni, poi diventati sette, in cui rimuginò sulle sorti della razza nera, sull’oppressione che sembrava inevitabile, la maledizione che incombeva per una sfumatura di colore.
Non vi è luogo in questo mondo ove l’uomo bianco possa andare e dire di aver portato la pace e l’armonia.
Rimangono luci soffuse: blu, arancioni, come fosse troppo facile lanciarsi quando tutto è chiaro ed è possibile distinguere inequivocabilmente la barra metallica, le corde fissate alla cima del tendone, il dondolio del trapezio che ti viene incontro come l’amata all’amante – eravamo sotto il pesco in fiore, la camicetta si apriva sul seno, come un sipario sulla scena.
Fu da lì che si accostò al movimento dei Musulmani neri e al suo profeta, Elijah Muhammad.
Ovunque è andato, ha portato la rovina, ovunque è andato, ha portato la distruzione. Per questo lo accuso: lo accuso di aver perpetrato i più efferati crimini su questa terra.
Voli da una parte all’altra, come un fantasma bianco sullo specchio ghiacciato della morte, che ti guarda, ti guarda – eri bellissima, le labbra si muovevano appena, gli occhi mi fissavano come da un altro mondo, di cui non sospettavo l’esistenza.
La svolta fu quando disse di voler fare l’avvocato e gli risposero che avrebbe potuto fare solo il falegname.
Lo accuso di essere il più ignobile carnefice della terra; lo accuso di essere il più violento rapinatore e schiavista della terra.
Ti dài la spinta, raggiungi il massimo della velocità e della potenza – sentivo che mancava poco, che la bocca era vicina: da quale lontananza eri arrivata, quale pianeta poteva ospitare un profumo così intenso?
Per lui non esisteva una rivoluzione non violenta, si convinse che ovunque i diritti degli ultimi si fossero affermati, l’obiettivo era stato raggiunto con la forza.
Accuso l’uomo bianco di essere il più vorace mangiatore di carne suina della terra, di essere l’ubriacone della terra. Lui non può negare le accuse; voi non potete negare le accuse, noi siamo la prova vivente di tali accuse.
Nel pubblico si diffonde un mormorio, come una risacca, come il vento che accarezza il prato, gli aghi dei pini, i vestiti colorati dei passanti – sotto la camicia s’intuiva la punta del capezzolo, ma ormai ero vicino, davanti a me vedevo solo labbra, una fila di denti bianchi come la tuta aderente dell’acrobata che sta per staccarsi dalla barra, mentre pieghi leggermente il capo, come per accogliermi, allarga le braccia per capire se lo slancio è quello giusto, se l’equilibrio ha raggiunto l’apice della perfezione.
Dichiarò che la lotta non violenta era figlia del timore, che se avesse vinto la paura, la libertà sarebbe rimasta un’utopia.
Voi e io ne siamo la prova. Voi non siete parte dell’America, siete le vittime dell’America; non avete avuto scelta venendo qui.
Non puoi più tornare indietro, i tuoi piedi allungati quasi toccano il tendone, ondeggi fra la luce arancione e quella blu – per un istante hai aperto gli occhi, ti ho vista: era come se cercassi una prova che fossi proprio io, che non si fosse interposto qualcuno all’ultimo momento, un acrobata in bilico sullo specchio ghiacciato della morte, che ora scivola rapidamente sulla barra fino a stringerla tra il femore e l’adduttore lungo, in una morsa che non deve cedere, mentre la lingua si fa strada e si contorce in cerca dell’altra, e lanci le braccia indietro per capire se sei abbastanza saldo, e senti la sua lingua che si insinua, si ritrae, e misuri la distanza dal collega che ha preso lo slancio come te, e all’improvviso sei un proiettile sparato tra la pista e il cielo, il cielo coperto dal tendone, la stringi, riesci ad avvertire il seno premuto contro il petto, la lingua che s’incurva, in un triplo salto mortale.
Se si versava il sangue nel Pacifico e in Corea, nelle guerre dei bianchi, si sarebbe potuto versare anche in America.
Lui non ha detto uomo nero, donna nera, venite con me, aiutatemi a costruire l’America, ha detto sporco negro, entra nella stiva di quella nave, ti porto in catene perché devi aiutarmi a costruirla, l’America.
Saltando di trabiccolo in trabiccolo, di piattaforma in piattaforma, in cerca di equilibrio, col casco giallo posato sul lenzuolo che ti avvolge il corpo, come il cielo coperto dal tendone.