da qui
Saulo sta per varcare l’ingresso dell’ospedale Sant’Eugenio. Ci sono persone che entrano ed escono: una signora impettita con soprabito beige, un ragazzo in jeans e berretto bianco, una donna coi capelli biondi che brillano come oro a diciotto carati. Cerca di capire dove andare; dà una rapida occhiata al prospetto dei reparti sui piloni dell’ingresso e percorre l’itinerario come un automa fino al reparto di chirurgia d’urgenza. In un ambiente asettico con prevalenza di colori bianco e blu, trova due portantini che provano passi di salsa tra un impegno e l’altro. Più in là c’è una fila di persone in ansia, di tutte le età; lui chiede notizie di don Faber: è sotto i ferri, lo sta operando il professor Listorti. Non si sa quanto potrà durare l’intervento e soprattutto è impossibile prevedere se il sacerdote potrà uscirne vivo. Saulo ringrazia; mentre aspetta con gli altri, s’interroga sul colpo di pistola: chi può aver attentato alla sua vita? A chi dava fastidio? Quale sgarbo può avere innescato una vendetta così atroce? Potrebbe essere chiunque; perfino i personaggi che ha notato all’ingresso, perché l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, o nei dintorni; non gli pareva sospetto il ragazzo in jeans con la borsa a tracolla e il berretto troppo bianco? E la signora, non era forse impettita oltre misura, come fosse orgogliosa di un lavoro fatto bene, magari dal marito? E l’uomo che parlava con la donna dai capelli d’oro, non sembrava confabulare guardandosi intorno, come per non essere sentito? Ricorda che a destra, vicino al cancelletto, aveva notato un tipo strano con un giubbotto in pelle, un po’ ingobbito, che procedeva a passi rapidi come volesse sfuggire a un pericolo imminente. Poi gli viene in mente che l’attentatore ci aveva ripensato, convertito dalle parole di don Faber. Possibile, si chiede, che le storie debbano sempre attraversare le forche caudine del dolore o della morte, come se la pace, la tranquillità, segnassero la fine di ogni intreccio, lo stallo del racconto, e solo l’irrompere barbaro di uno sconosciuto armato di pistola, l’esplodere di un colpo, per giunta accidentale, il crollo del protagonista potessero giustificare l’attesa del lettore, la fatica dello sguardo che segue le righe nere ostentando un diritto all’emozione, un debito di suspence, una dose adeguata di fiato sospeso? Mentre lui si smarrisce in elucubrazioni senza fine, don Faber lotta fra la vita e la morte: chissà quali pensieri passano per il suo cervello, quali parole per tentare di reagire al baratro, per voler resistere, per esserci ancora a questo mondo per mille e mille giorni: aprirei gli occhi se ci fossi tu; aprirei gli occhi se potessi incontrare ancora i tuoi, ma nel dubbio li tengo chiusi e continuo a sognarti, solamente.