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69. Manhattan

Creato il 09 dicembre 2010 da Fabry2010

69. Manhattan

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Leopoldo si sveglia nel letto di una stanza dalle pareti bianche e una finestra che dà su una specie di giardino: s’intravedono le foglie ampie di un albero che protende i rami come per curiosare nell’interno. Sulla destra, una tenda arancione cala dal soffitto fino al pavimento in mattonelle chiare. Alza gli occhi e scorge una lampada dalla linea moderna che si allunga in avanti come una giraffa; accanto al letto, un tavolino a carrello con oggetti essenziali: un piatto protetto da un coperchio da pentola; una bottiglia d’acqua da un quarto di litro; un pacchetto di crackers di marca sconosciuta; una mela verdechiara con una macchia minuscola proprio sotto il picciolo.
- Che ci faccio qui?
In genere non parla da solo, ma la situazione è complicata. Sul comodino alla sua destra nota un depliant; l’intestazione svela una parte del mistero: Clinique Geoffroy St Hilaire – Paris. Chi lo avrà portato fino a qui? E perché in un posto così chic? Come farà a pagare il conto? Avverte ancora il dolore al ventre che lo aveva fatto svenire di fronte alla piramide del Louvre. Pensieri strani si affacciano alla mente: la situazione di Maria, sempre in bolletta, la sua difficoltà di scrivere e sbarcare il lunario, la felicità di un viaggio a Parigi finalmente realizzato, il sogno di una donazione che le dia tranquillità per dedicarsi al romanzo senza l’incubo della fine del mese, l’idea di un mondo in cui ognuno coltivi i talenti senza l’assillo di strappare il tempo al cumulo dei lavori di fortuna; immagina Maria in uno studio di Manhattan, seduta a un tavolo di legno, raggiunta dalla luce calda di una finestra che dà sui palazzi e i grattacieli, dove il racconto rimbalza da un angolo all’altro quasi senza bisogno di invenzione, perché è già lì, come nascesse dal confine della finestra illuminata che separa la città dalla camera chiara col letto a due piazze, una copia di Chagall attaccata alla parete, lo stereo arrampicato sul mobile scuro dietro il tavolo, il divano beige col gatto che la guarda con occhi sbarrati di bambino, come in attesa curiosa di qualcosa.
Leopoldo, però, non è sicuro che così sia più facile scrivere il romanzo: la storia, forse, sboccia solo dal letame della lotta quotidiana, dalle urla della gente nel cortile, dalla mosca ostinata che plana inesorabile sulla tastiera del computer, dal dolore allo stomaco che sembra l’unico lasciapassare perché il filo della narrazione si dipani nel bel mezzo di paure, attese, delusioni.
Bussano alla porta:
- Avanti! fa Leopoldo.
Un uomo con camice azzurro, copricapo di cellophane con visiera scura e occhiali dalla montatura spessa dichiara con voce rauca e gentile:
- Sono il dottor Gerard Peltre.



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