Che resti tra noi.
Dopo i venti sei una puttana.
Non mi permetterei mai di giudicare la vita delle altre persone. Però, insomma, dopo i venti sei una troia. Significa che dalla tua lontana, memorabile prima volta, ne hai fatte seguire altre diciannove. E non venite a raccontarmi le solite storielle che però dipende, nelle situazioni bisogna esserci etc etc etc… perché sono tutte cazzate. Sono tutte parole e le parole sono delle gran civettuole, come diceva la nonna Adolfina, scaricata dal nonno dopo quarant’anni di matrimonio con uno scarno pezzo di carta macchiato di caffè riportante: ”Le felicità danzano in cerchio, al bordo di una finestra”. Da quel giorno, passa la sua vita davanti alla finestra: è convinta che prima o poi le parlerà e che le regalerà l’illusione di non essere stata realmente lasciata sola, a pochi passi dall'arrivo.
Insomma, le parole non vanno ascoltate. Sono donnette pronte a farsi palpeggiare sotto la gonna dalle mani dell’oratore più abile. La notte ti fanno sognare e la mattina ti accorgi che di loro non è rimasta traccia, se non qualche piega sul cuscino. Ti fanno bere di tutto, con la scusa del tono, dell’accento, del paraverbale, della mimica, della semiotica, della prossemica, della retorica, della direzione, del codice, del mezzo e del contesto. E se le fraintendi, lo stupido sei tu, che non hai avuto la sensibilità di comprendere tutti gli inutili riflessi del loro romanticismo. Prendete i numeri, invece. Di loro si che ci si può fidare. Non hanno nulla da nascondere, sono sinceri, asettici, professionisti, rappresentano ciò che dicono di rappresentare. Vendono ciò che hanno dichiarato di vendere davanti al portone di casa. Semplicemente affidabili. Così, sei certa che due più due farà quattro anche domani e che di notte o di giorno, sotto un lampione o alla seducente luce di una candela, 19 piselli saranno sempre e comunque tanti. Esageratamente tanti. Troppi, a meno che tu non sia una puttana.
Io, per esempio, sono arrivata a dieci. Secondo me, per avere ventiquattro anni, è un buon numero. Dà al tuo sguardo la giusta sfumatura di malizia, senza appesantirla con i toni volgari tipici di chi, invece, ha già raggiunto il traguardo dei venti, appunto. E poi troppa esperienza agli uomini non piace. Impazziscono per le espressioni da cerbiatta impaurita, per le mani esitanti, impazziscono per la pelle incerta, per i vestiti che non si vogliono scollare dalle forme belle e insicure. Impazziscono per la lingua sincera e agitata. Così, ogni volta, lo faccio: fingo d’interrompere il viaggio delle loro dita curiose, per vedere nel loro sguardo un istinto animale che la sicurezza dell’esperienza non ha il potere di accendere.
L'ultima volta, però, no. E’ stata una cosa rapida, avevo fretta; il nove mi ha sempre portato sfiga e non vedevo l’ora di riempire la decima posizione della mia lista. L’ho sentito parlare al telefono con la sua ragazza nel cortile dell’università; l’avevo già beccato più volte a mostrare un certo interesse per il bottoncino difettato della mia camicia. Lei lo ha chiamato per augurargli buon esame. Lui, di tutta risposta, ha accettato il mio invito ad un pomeriggio di ripasso intensivo a casa mia. Per il resto, nulla di nuovo. All'inizio ha avuto delle difficoltà di prestazione; mi sono già trovata a trattare col fidanzato pentito tutto amore e lealtà che all'ultimo secondo vuole tirarsi indietro. L’insistenza in questi casi è letale. Così, mi sono avvicinata appoggiandogli dolcemente una mano sulla spalla, l’ho guardato con un misto di tenerezza e di comprensione e gli ho sussurrato..”Dimmi, ti capita spesso? ” Qualche minuto dopo, la decima posizione poteva dirsi occupata. Lui aveva dimostrato la sua virilità, io avevo dimostrato la sua stupidità. Mi fa star bene ritrovarla ogni volta, quella stupidità. Vederla evaporare dal loro sudore, ritrovarla nell'imbarazzo che colora i loro volti a gioco concluso; nella gentilezza goffa che usano per dirmi che una seconda volta non ci sarà. E non giudicatemi, tutti hanno le loro manie: c’è chi stira le mutande, chi stacca le ali alle mosche, chi prega, chi si gratta via le croste delle ferite prima che sia il momento opportuno…io, rifletto. Non nel senso di meditare, ma nel senso di riflettere, come fanno gli specchi. Li metto davanti alla loro parte più marcia, quella che rinnegano. Li faccio scivolare negli strati più viscidi e melmosi del loro io. Inciampano con inerzia in loro stessi. E quando sbattono violentemente la testa contro la loro profondità, iniziano a sanguinare. Ma invece di disinfettarla, la ferita, la coprono con un cerotto fatto di parole: mentre si rivestono, li sento sfornare i loro è meglio che finisca qui, abbiamo fatto una cazzata, scusa ma tutto questo casino mi ha fatto capire che la amo, cioè, è la mia ragazza da una vita, mi dispiace, non sentirti usata… Usata? Io?
Vedete, la mia non è una qualche forma di perversione sessuale. È una nobile ricerca dell’amore. Tutto ciò che i loro occhi trasmettono mi racconta ciò che l’amore non è.
Me la ricordo ancora la nonna Adolfina quando, incollata ai bordi della finestra, con il bigliettino del nonno accartocciato quanto le sue mani, mi disse: “ Luisa, che resti tra noi, non che io dia peso alle parole ma… secondo te, queste felicità in cerchio... danzano meglio di me?”