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7. Sequente anno Domini fuit hyemps aspera et orribilis…

Creato il 13 marzo 2011 da Fabry2010

A questo punto dell’infervorata orazione, due ospiti dello xenodochio si erano fatti vicini al gruppo dei Fabriciani, al cui centro convenientemente Fabricius stava, e si rivelarono fratelli dell’ordine dei Minori, giunti in civitatem Civetiensem il giorno prima senza mostrare apertamente in pubblico il loro stato.

«Sora nostra Morte corporale, da la quale nullu omo vivente po’ skappare! Laudata sia sora nostra Morte corporale, da la quale nullu omo vivente po’ skappare!» proruppero i due all’unisono, urlando e interrompendo il discorso col quale Fabricius inciviliva gli amici. Egli non si era accorto del loro arrivo, e con gli occhi interrogò i poetici spirituali (o spiritali della poetica), dei quali nessuno conosceva i nuovi venuti. Allora egli giunse insieme le punta delle dita della mano destra con un curioso movimento oscillatorio dall’alto in basso e dal basso in alto, e mormorò «Anvedi i fratoni! Ma che stanno a di’ questi? Chi so’? Che vonno?» (gli spirituali tutti dissero con una voce «Boh!»), e si rivolse ai Minori con queste parole: «A fra’! Morte corporale tu sorella!». Presso i Fabriciani infatti la morte era constatata e accettata, nella giusta misura delle cose ineluttabili, ma tenuta per sorella e benvenuta… no, non era proprio il caso. In questa loro attitudine, si appoggiavano all’incrollabile sostegno dell’auctoritas: Gesù non morì certo con il sorriso sulle labbra, né elevando laudi alla morte corporale che calava sulla croce per aggredirlo, e nemmeno lui evidentemente potuit skappare, inchiodato com’era al legno. Gesù non benevoleva la morte corporale, e quando poté la ricacciava indietro e non la accoglieva, come fece con l’amato Lazzaro di Betania, come fece con la figlia del capo della sinagoga: la guardò con compassione e le sue labbra pronunciarono un’altra volta ancora sommessamente: “Talitha kum“, fanciulla alzati. E come fece con le proprie spoglie corporali. Atti che rendono ogni imitatio Christi compito assai arduo.

Ma quella dei Minori non era soltanto ignoranza. Non era soltanto un’ostinata propensione di fare pasticci delle cose umane e divine. Fabricius temeva i Minori per la loro continua intromissione negli affari di tutti, dal momento che i frati vanno e vengono ovunque grazie alla loro povertà volontaria, che non tiene alcuni di loro lontani da illeciti godimenti. [ut brevi tempore visum est omnibus in civitate Civetiense notavit al. man. marg.]

Con i conversari tra i poeti dello spirito, (o sputacchiati dalla poesia, inter exsputos artis poeticae [sic!]) Fabricius intendeva comporre la storia delle storie (historia historiarum), una favola interminabile che avrebbe continato ad accrescersi con la vita della comunità, con ogni piccolo individuale contributo, con la gente che veniva e con quella che partiva e se ne andava. E così molte volte, trascorsa l’ora del vespro, mentre la lanterna fumava e dava una luce che non bastava agli occhi, egli si soffermava a meditare sul grembo dell’eterno che raccoglie frammenti incapaci di salvarsi… schegge che non stanno negli schemi rigidi dell’intreccio e della fabula. E sapeva che il suo compito e la sua vocazione era alla fine raccogliere anche i residui delle narrazioni, quelle cose che non suonano bene in una favola bella, ma alle quali si deve pur trovare un posto. Egli era troppo consapevole di uno spirito più grande della vita singola e meschina per arrestarsi alla storia di uno. L’opera autentica nasce dal continuo incrociarsi di vite diverse, che in questo incrociarsi diventano destini.


(continua…)



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