Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 27, 2011
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L’unità dei cristiani sembra scontata, e invece.
Qual era l’ultima preghiera di Gesù?
E’ un mucchio di case bianche, come una cipolla, che a guardarle ti viene da piangere per la commozione.
Ero un ragazzo e chissà quante ne avevo combinate; a un certo punto mi fermavo, guardavo lontano, sentivo le parole che arrivavano e cercavo una penna, un foglio di carta bianca.
Si trattava di discutere o di amarsi? Il problema si sarebbe risolto semplicemente cambiando prospettiva.
Che siano una cosa sola, come tu e io siamo una cosa sola. Sì, ricordo, il testamento alle soglie della morte.
Guardi dall’alto e subito spiccano le mura, il campanile, la sfera d’oro compatta della moschea di Omar.
Che cosa mi ispirava? Un seno rotondo, la laguna, la rete metallica dell’aeroporto da cui decollavano proiettili che si confondevano presto con le stelle.
La carità, insomma, questa sconosciuta. Ma è roba da santi, gente che la teologia la supera di slancio con un gesto, una parola traboccante, una corsa, una notte insonne accanto al letto di un malato.
E’ una cosa seria, il testamento; come se avesse detto: ciò che conta è questo.
C’è un coro che si alza dai tetti, una musica che percepisce solo chi ha un lev shomea, un cuore che sappia ascoltare.
Una donna, certo: ma la bellezza del corpo non rimanda ad altro? Non è vero che la parte migliore sta nel sogno, nel ricordo affondato nel passato, un paradiso perduto, l’eco di una voce cui non sapresti dare un nome?
L’antidoto alla guerra, agli odii, alle lacerazioni di ogni genere di invidie, egoismi, avidità, non è forse l’amore? Questo amore?
Come si fosse lasciato appendere alla croce con quest’ultimo pensiero, avesse chiuso gli occhi accarezzando una visione insopprimibile.
E’ il segreto del sepolcro vuoto – che strano, visiti una persona cara al cimitero e non la trovi più, non ci sapeva stare, non era il posto giusto.
Ti tende la mano, la bellezza, e tu immagini una vita, confondi il passato col presente, affondi in quel corpo come se il ruotare dei mondi, l’esplodere delle supernove, il risucchiare insaziabile dei buchi neri non fosse che un simbolo per dire questo amplesso, questa unione, il ritrovarsi all’improvviso l’uno dentro l’altra, in una casa ai confini del reale.
Cercare ciò che unisce o quello che divide? In soldoni, il problema è tutto lì.
Padre, perdona loro: come se il perdono fosse una mano che ravvia i capelli, scende lungo il collo e arriva a disegnare una linea fragile e tremante sull’arco della schiena.
Un sepolcro vuoto: ci hai mai pensato? Tu porti un fiore, un rimpianto, una preghiera, e non c’è niente, l’oggetto della tua pietà ti ha preceduto, è lui a venirti incontro per dirti che da secoli, anzi, millenni ti aspettava.
Ti saluta con la mano, la bellezza, al punto che credi di esserti sbagliato, di aver preso una cosa per un’altra, sarebbe troppo bello, puoi chiamarmi amore, ricordi? Se la nebbia svanisce, quale nuova passione mi attende? Sarà tranquilla e pura? Potessero le mie mani sfogliare la luna!
Basterebbe parlare, esprimersi, capirsi: a volte basta esserci, bere un bicchiere, sorridere dell’ultima sconfitta.
Come se il perdono fosse riabbracciarsi, di notte, dopo un giorno duro di rimproveri e di musi, fosse un riconoscere nell’altro una voglia di te, perché senza di te, che potrà essere?
Un sepolcro vuoto: non ci posso credere. Eppure, eppure, non trovi normale che l’amore risusciti ogni giorno e non soltanto il terzo?
Rimane una casa sigillata, dall’altro lato del mondo: eppure. Ricordi? Ho paura di perdere il prodigio dei tuoi occhi di statua, e quella nota che di notte depone sul mio viso il tuo respiro, solitaria rosa.