Pubblicato da fabrizio centofanti su maggio 28, 2012
da qui
- Credo che Eleonora non ti abbia lasciato per il tango.
Che tipo, Nino: sembra distratto, poi se ne esce con le sue intuizioni folgoranti.
- Perché dici questo?
Lo guardi bene. Non gli daresti un soldo: il viso magro, i capelli impomatati, gli occhi tristi di chi pensa troppo.
- Secondo me, avevi ancora in mente Sonia.
Era sempre l’ultimo appuntamento quello che concordavate, per finire in bellezza. La pazzia di Verona, per esempio, quando saliste sull’astronave dell’Arena, caduta lì da chissà quale pianeta. Non avevi mai visto Sonia così bella. Eravate al concerto senza il padre: il viaggio era lungo e non ce la faceva. Finalmente soli, nella vasca di luce e buio che ingoiava ogni paura, anche quella di fare un altro sbaglio e rassegnarsi ai bambini difficili in attesa di un aiuto che non potevi dare, ma ora era diverso, gli occhi verdi brillavano nel gioco di fari che parevano puntare tutti su di lei: in questi casi non avevi dubbi, riprendevi il filo, riacciuffavi il senso, da consumare in un’ora o in una notte, perché già pensavi all’hotel dove avevi prenotato, al momento in cui saresti rimasto stregato un’altra volta, come dal coro e dai violini, dall’oboe e dal maestro Morricone che dirigeva così compostamente e ti chiedevi come potesse una passione simile esprimersi in gesti misurati e mai sopra le righe; pensavi anche tu di incanalare gli spiriti bollenti in una forma accettabile davanti al mondo, di prendere in mano la tua vita, metter su famiglia, sentirti responsabile di figli nati dal tuo sangue, col tuo DNA, il modo tuo di muoverti e parlare e non ti saresti mai permesso il lusso di dire vado via, non so se torno, come hai fatto con Mario che ti sta aspettando ancora con gli occhioni scuri e le labbra cucite, o forse canta Bohemian Rhapsody per scacciare la paura, parola per parola, verso per verso, come avrebbe potuto insegnargli solo l’uomo dal nome improponibile, quello della scritta sul pontile e ora, ora, ti sembra tutto chiaro, mentre Sonia rapita dalle note di The mission ti stringe la mano aspettando una reazione, una qualunque, e non sa che stai pensando a cosa potesse voler dire il segno sulla pietra, cui prima non avevi fatto caso, ma che adesso ti pare possa mettere insieme tutti i pezzi di una vita inutile, e il coro sono voci per la prima volta in armonia e intuisci che un progetto è possibile, un orizzonte che concili la richiesta muta di Mario con la bellezza della musica, il tango con la vasca piena di luce e buio dell’Arena di Verona, e forse per questo la tua mano nella mano di Sonia è inerte e fredda e lei se ne accorge, si alza e se ne va e tu non hai la forza di seguirla e resti a piangere come un bambino difficile che sa solo guardare e ammutolire, mentre il maestro ondeggia con le braccia composte sull’onda lunga dell’arpa, del flauto, dei violini e ti sembra di aver perduto tutto e proprio per questo di aver ritrovato la tua vita, che ti viene incontro quando non vuoi fissarla in una forma, la lasci scorrere come una scala musicale, il sussultare di alti e bassi negli scranni del coro, e la luna è il viso bianco di Sonia che svanisce lentamente oltre l’ultimo piano dell’Arena, come una voce che si spegne a poco a poco e fa spazio al silenzio della stazione di Verona all’una e mezzo di notte, al treno vuoto che prendi solo tu, per andare verso dove ancora non sai.