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73. L’orologio

Creato il 29 dicembre 2010 da Fabry2010

73. L’orologio

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A Maria viene il dubbio di aver lasciato il cellulare acceso: immediatamente, infila la mano destra nella tasca e s’imbatte in una catena sottile, di quelle usate per appendere al collo monili di una certa dimensione. Prova a tirare, ma è difficile, perché ci sono oggetti antagonisti: un accendino che porta sempre con sé, anche se ha smesso di fumare; una chiavetta per collegarsi in rete, le chiavi dell’automobile e di casa e il cellulare stesso, che all’improvviso ha perso d’interesse. Ecco, finalmente è riuscita ad afferrare la catena per il verso giusto; sente che fa capo a un oggetto rotondo, con sporgenza ruvida e una piccola maniglia: un orologio! Com’è finito nella tasca? Non ricorda di avercelo messo, ultimamente. Don Faber glielo diede in un momento, per lei, di grande crisi. Fu un gesto eroico, il sacerdote lo conservava come fosse una reliquia. Apparteneva al suo padre spirituale, morto da santo, vittima di un attentato incendiario nella chiesa dove lui, ora, era parroco. Don Faber l’aveva acquistato in un’edicola per la cifra di sei euro, ma don Mario lo portava con orgoglio, come un gioiello di valore inestimabile. Che senso può avere, per Maria, ritrovarlo proprio ora, davanti a san Giuseppe, che le ha ispirato un’idea più profonda della letteratura? Le viene da pensare che una storia nasce sempre da un ricordo, un frammento di realtà che produce conseguenze a catena, perché ogni fibra del cosmo è intrecciata alle altre in un groviglio inestricabile e basta prendere il filo in un punto qualsiasi per ripercorrere l’itinerario dei dolori e delle gioie, e in fondo lo scrittore è una figura paziente che tesse continuamente la sua tela, facendo e disfacendo come Penelope che attende, trasformando il tempo in una costruzione sempre più precisa: l’orologio che Maria ha scoperto nella tasca e che ora rivela l’esistenza di un filo da cui il racconto può ricominciare, causando, per esempio, un sussulto per il destino di don Faber, di Leopoldo, di una umanità in bilico tra la vita e la morte, eppure sempre pronta a ripartire, a crederci ancora, a sperare che scocchi l’ora giusta per dire finalmente: sono vivo, l’universo è un’opera che adesso, nella penombra dell’altare, davanti a san Giuseppe, m’interpella sul senso del mio esserci, sul contributo che mi è dato di offrire alla trama sbilenca e preziosa della storia. Se veramente esisti, Dio, dimmi che ho ragione, questa volta.



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