Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 29, 2011
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C’era poi la questione degli ebrei.
Non è stato detto tutto? Le persone ammassate sui binari in attesa di un viaggio solo andata.
Il treno è un pensiero, un’immaginazione: mentre il paesaggio corre dalla parte opposta è inevitabile ritrovarsi insieme, nella carrozza dei sogni, capace di trasportare la persona giusta, senza ritardi, senza la fatica del tempo che incalza, la faccia pallida, i capelli spettinati.
Si sentiva il bisogno di assolvere, soprattutto, dall’accusa di deicidio.
Un binario morto che finiva nell’edificio squadrato, la torretta di guardia, sotto un cielo grigio piombo.
Ha questo di bello il treno: impedisce ai ricordi di svanire, anzi, li trasfigura in carne bianca e liscia, fresca come neve, risuscita le voci, i profumi, le labbra che si muovono al ritmo ondulato del vagone.
Innanzitutto una parola: condanna. Tutti aspettavano di sentirla pronunciare.
Il lavoro rende liberi: ti sembra di vederlo il ghigno sarcastico dell’inventore di tanto benvenuto; ti verrebbe da augurargli la stessa libertà per i secoli dei secoli, se qualcuno non avesse consigliato di non rendere male per male.
Ti convinci che il treno è il padre di tutte le scritture, anche di questo ritrovarsi ogni giorno con una tappa in più, le righe che scorrono decise come le colline che appaiono oltre il vetro, gli alberi ingialliti dall’autunno, i campi di papaveri che fanno del pianoro una macchia di sangue innocente.
Si eliminò la preghiera per i perfidi giudei, che significava non credenti, ma sai com’è, ognuno capisce a modo suo, soprattutto se non parla latino.
Cosa c’era, oltre il cancello? Difficile pensare a un confine più cruciale: che sarebbe stato di te, dei tuoi progetti, della voglia di vivere che nascondevi dentro, nonostante tutto?
In treno, chissà perché, ti viene da sorridere: come se il viaggio spazzasse via ogni traccia di dolore; come se il fatto di partire ti consegnasse il visto per essere felice.
Loro reagirono diversamente: chi ringraziò e chi disse che era un atto dovuto, una mano che passava finalmente, dopo tanti secoli, sulla coscienza sporca dei cristiani.
Il filo spinato è la cosa più orribile che esista: un fiore al contrario, il bacio di Giuda, l’addobbo di una festa lugubre che finisce col massacro di tutti gli invitati.
Il destino del treno è sparire all’orizzonte: lo vedi solo un attimo, oltre i filari delle viti, e subito lo inghiotte una vita che non sarà mai tua – ricordi il sussulto di quando si avvistava il pendolino? Eravamo capaci di svegliarci, se uno dei due si addormentava, stremato dalla marce forzate.
Ci sbattevano in faccia i campi di sterminio, una complicità sigillata dal silenzio, l’orrore quotidiano del lasciare che fosse.
Accatastati nelle cucce come cani, ancora in grado di pregare, di alzare gli occhi al cielo, uno su mille; ma tristi, allucinati, increduli la maggior parte, con la stessa domanda stampata in mezzo agli occhi.
Solo la pioggia, pensi, può lavare tutto, una pioggia di stelle, come il dieci agosto, quando morì mio padre e la voce di mamma mi raggiunse a tradimento, sul fiorino bianco.
Ritirammo la maledizione, ma anche lo schema, che fu più sfumato, come fosse esagerata un’assoluzione senza condizioni.
Perché? E’ la domanda più terribile che l’uomo possa fare, e devi essere di ghiaccio per riuscire a reggerla, per non scavare con le lacrime le guance, un pianto che corre su un calesse di pietra – come crescere il gran guarda il villano, finché non sia maturo per la falce.






