da qui
Alberto lavora al suo romanzo. Come sede, in mancanza del faro, ha scelto un albergo in cui gli sembra di trovare l’atmosfera più opportuna. Si rifugia sempre nell’angolo a sinistra del terrazzo, su una sedia in ferro battuto, davanti a un tavolo coperto da una tovaglia azzurro chiaro. Alla ringhiera sono appese vaschette di gerani, col terriccio fresco e ben drenato; le foglie grandi e tondeggianti gli ricordano l’esplosione della casa in riva al mare, il rosso e il giallo in sfumature infinite, gli occhi di pantera che ora vede dappertutto. Al di là della tenda si srotola il Foro romano col suo fasto fuori luogo: l’Arco di Settimio Severo, la Basilica Giulia, le Colonne Tetrarchiche. Alberto non è mai stato tentato dal romanzo storico: la solennità architettonica lo provoca a scoprire il rovescio volgare e quotidiano, le urla del mercato, il tanfo della Cloaca Massima, gli inganni del Comizio. Piuttosto, lo interessano i pini, le leggende che si portano dietro, simboli di vita e di morte: tagliati non ricrescono, ma vivono in condizioni proibitive; vi si estraggono essenze per costruzioni navali e medicine; le foglie sono aghi, i frutti pigne tondeggianti, coniche o allungate che occultano il pinolo, come se solo scavando si trovasse il senso, come se la storia umana e vegetale rifuggissero dalla solennità esteriore, e ogni segno vivente celasse alla fine una sorpresa: Alberto avverte che il terrazzo ha un’anima invisibile, occhi di pantera confusi con quelli dell’editor, l’urlo della giungla come le parole che sente sibilare nelle orecchie: in definitiva il suo testo, pur non privo di una sua suggestività, e nonostante alcuni pregi, non è stato ritenuto adatto alla pubblicazione. Per Alberto le rovine imperiali sono un’oscura profezia: solo dalla conflagrazione del passato, dalle macerie di ciò che non ritorna può nascere il romanzo sempreverde delle foglie-aghi, del frutto racchiuso nel profondo.