L’8 novembre 1921 nasceva mia nonna materna, Maria Ausilia, oggi avrebbe compiuto 90 anni se non fosse scomparsa il 21 febbraio 2006. Questo scritto l’ho composto proprio quell’anno per ricordarla.
Sempre per telefono
Sempre per telefono. Ci sono annunci nella mia vita che mi sorprendono con la cornetta in mano. Mio zio non lo vedo e non lo sento da anni, ma l’altro giorno torna e mi chiama per annunciare la scomparsa di mia nonna. I nostri rapporti si erano guastati e interrotti quasi due decenni fa, a causa di quelle insulse, stupide incomprensioni parentali. Più si è dello stesso sangue e più si rischia di fraintendere. Non è una regola aurea, però i fatti la dimostrano spesso e volentieri.
Mia nonna aveva interrotto ogni relazione con sua figlia, mia madre, di conseguenza la rottura comprendeva anche me…
Questa donna dalla corporatura robusta, forte di carattere, impressionò la mia infanzia con la sua presenza vigorosa. Mio padre era uscito di casa quando avevo due anni, ci sarebbe tornato solo il sabato per trovare me e mia sorella, non mia madre, con la quale si era separato. Mio zio, fratello di mia madre, viveva in casa mia, era un ventenne, uno di quei figli della beat generation. Amava i Beatles, Luigi Tenco e Prévert. Il pomeriggio mi intrufolavo nella sua camera ad ascoltare la musica che veniva dai nastri di un registratore Geloso. La curiosità è stata la mia compagna amatissima, ininterrottamente. Oggi è la stessa di allora. Un bambino di tre anni che entra nella stanza di un giovane simpatizzante degli hippies e dei capelloni, un piccolino che resta incantato dalle parole, dalle note, dal fumo della sigaretta che sale e crea una cortina olfattiva e visiva. Sono io. E sono ancora io quel cucciolo d’uomo impazzito per il jazz di Louis Armstrong e Duke Ellington, suonati senza sosta nel mio giradischi.
Mia nonna mi diceva di mettere della musica, già a due anni sceglievo Rossini e lasciavo di stucco le persone che osservavano questo scricciolo assorto nell’ascolto, capace ogni tanto di accompagnare la melodia andando a tempo con gesti della mano o movimenti del corpo.
Mia nonna cantava, una bella voce intonata ereditata dalla madre napoletana. Canzoni classiche della tradizione partenopea e non solo. E pazziava pure. Con lei ho scoperto il grande teatro di Eduardo, la forza comica di Peppino, Totò, l’energia solare di un mondo che non avevo sotto gli occhi.
A Lucca la mia prima abitazione fu in Via Fillungo, per un anno, e poi l’infanzia la trascorsi all’ultimo piano di una casa antica di Via Beccheria, davanti all’edicola-cartoleria più importante della città. La luce mi veniva dalle grandi finestre e, soprattutto, dall’altana, che adoravo.
Amavo il mare a tal punto che quando mi ci portavano non osavo entrarci. Terrorizzato. Il mare era la grande madre, forse era mia nonna trasformata in acqua. Come mia nonna il mare poteva essere travolgente e trascinarmi in un groviglio incomprensibile. Lo amavo e lo temevo. Inutili i tentativi di convincermi ad affrontarlo. Dicevo a me stesso e m’immaginavo che i pesci mi mordessero i piedi e sapevo che non era vero. Mi piaceva invertarlo. Amavo questa paura femminile che proteggeva la mia incolumità.
Con il mondo vegetale e animale i rapporti erano completamente diversi. Sfrontati. Mia nonna c’entrava poco. Sulle Mura della mia città, costellate da baluardi ricoperti dalla vegetazione, correvo in mezzo al verde per scomparire e mi nascondevo dietro gli alberi. Lì avevo il mio regno. Potevo essere solo o in compagnia di qualche compagno di giochi. Non cambiava niente. Staccavo le cortecce e le mangiavo, abbracciavo, annusavo e annaffiavo con la mia pipì quei colossi frondosi.
Anche con gli animali non mi facevo problemi. Se mi portavano a Livorno a trovare i miei parenti e si faceva la consueta visita allo zoo allora io mi scatenavo. Nemmeno i più grandi avevano il coraggio di mettere le mani dentro le gabbie dei leoni o di volersi avvicinare all’orso, il mitico “Gigi balla”, così chiamato dai livornesi per i suoi movimenti goffi scambiati per una danza di chissà quale origine.
Non so, tutto pensavo meno che al pericolo di un bestione come quello. Io non lo vedevo cattivo, mi sembrava anzi un allegro concentrato di gioia e vitalità. Mi sentivo come lui: libero e nello stesso tempo ingabbiato dalle regole assurde degli esseri umani “grandi”.
Se penso al mio ’68 lo vedo ancora nei corridoi di casa mia, mentre con un cartello scritto a pennarello protestavo. Dentro di me covavo la ribellione vera, quella che nessun decerebrato intruppato tra Marx e affini poteva appoggiare. A parole si diceva “la fantasia al potere”, nei fatti tutto era già tristemente omologato, conformista e uguale. La maggioranza non ha fatto un bel niente, soltanto disordine. D’altronde, seguendo Il re travicello di Giuseppe Giusti, “le teste di legno fan sempre fracasso”.
Mia nonna aveva tante sorelle con le quali creava alleanze, buoni propositi e poi rompeva. Si era vista coinvolta nella separazione di mia madre, nel nuovo compagno di sua figlia. Troppe cose da comprendere e accettare insieme. E quei due bambini da crescere, mia sorella ed io. Oggi la capisco e non la critico per la sua inadeguatezza. Un matrimonio non riuscito nel 1966, dichiaratamente, apertamente fallito, era uno spettacolo terribile da vivere. Mamma è stata la donna più coraggiosa che abbia conosciuto, la persona che ha preferito mettersi tutti contro anziché tradire se stessa.
Mia nonna ha osservato, non ha mai preso una posizione chiara. Travolta dagli eventi, s’è arrangiata vivacchiando.
Sempre per telefono, mio padre comunicò di non volere dare una lira in più per gli alimenti. “Piuttosto mi licenzio!”, disse. Qualche mese dopo morì a quarantaquattro anni. Io avevo il mio vero padre ancora in vita: era il compagno di mia madre, l’uomo che mi ha cresciuto, allevato, dandomi l’opportunità di giungere fino alla laurea. Babbo.
Tra il compagno di mia madre e mia nonna non correva buon sangue. La verità è che faceva comodo avere uno stipendio in più. Stavamo bene, ma con i soldi che portava Saverio Gargini, il mio vero babbo, stavamo meglio, molto meglio. Tutto qua.
L’altro giorno mio zio mi dà l’annuncio e io resto come un imbecille con il telefono in mano. Reagisco con gli strumenti che l’educazione, la cultura mi ha dato, parlo piano con la voce grave. Mio zio dall’altra parte del telefono non mi ha riconosciuto, mi dice: «Che vocione hai messo!». Eh già, sono passati vent’anni e io sono un uomo, quello che ero in quel luglio del 1986 si è “leggermente” modificato.
Per qualche giorno vivo in uno stato di inquietudine, di agitazione, gli altri se ne accorgono. Le lacrime quando non mi scendono fuori lavano i miei organi interni. Piangerò solo nella mia stanza ricordando nonna.
Un altro vuoto nella mia vita, un’altra persona che ha vissuto anni con me se n’è andata. Ma io non posso fermarmi. Quanti morti lascerò ancora dietro di me? Non lo so. So che mi sento sempre più un sopravvissuto, un reduce di una guerra che ho combattuto fianco a fianco con chi ha cessato di vivere. Ci sono ancora tanti “compagni d’armi”, affetti vecchi e nuovi che mi accompagnano per quelle che saranno le mie nuove battaglie. Li vedo qui, davanti a me, e ringrazio il cielo di poterli vedere ancora.
Come tutti i filosofi, anch’io, filosofo “in nome del popolo italiano” (ovvero laureato in filosofia) aspetto la morte, la mia morte, e nel frattempo scrivo, lavoro, leggo, insegno, parlo, faccio l’amore… per non morire. Tutto ciò che ho imparato, le mie esperienze, le mie conoscenze, le metto a disposizione. Non sono mie, sono di tutti, di chi mi ha preceduto come di chi mi seguirà. Non avrebbe senso aver studiato tanto, aver goduto tanto, se non dessi tutto me stesso agli altri. Se non si può essere gentili e generosi per che cosa siamo venuti a fare al mondo? Rifiuto di mettermi a capo di una fazione, di un partito, di un’ideologia, di una religione, non voglio adepti, allievi, seguaci, gente che mi viene appresso e mi considera un leader; sono semplicemente io, ciò che sono, che sono stato, che sarò, con il mio talento, le mie doti, i miei vizi, i miei limiti. Non m’interessa essere amato, ho già avuto tanto amore e posso vivere di rendita. Chi chiede e non è in grado di dare amore, amicizia non avrà niente. Chi crede che sia meglio avere potere e dominare, in nome di Dio, di uno stato, di un pensiero, sarà sempre la persona più triste e sola di questo mondo.
Non mi vanto della fortuna che ho potuto ricevere, non è mia, ce l’ho solo in comodato. La dovrò restituire alla fine dei miei giorni.
Nonna non c’è più e queste sono le parole che avrei voluto dirle. Parole banali, scontate, dette e ridette. Ma non ne ho altre.
Vorrei dire a nonna che non mi vanto di un bel niente, anche se posso sembrare un presuntuoso. Lei sa bene che nell’attesa della morte troviamo dei motivi per sopravvivere, per campare. Lei aveva i suoi, diversi dai miei. Non li giudico. Non mi permetto di criticarli.
Non c’ero quando lei ha cessato di respirare, ma ero presente e vivo quando babbo se n’è andato. I miei occhi lo hanno visto uscire dalla vita. In quel giorno ho visto la fine di un essere umano che ho amato, ma questa non è la mia disperazione, è la mia più grande lezione di filosofia. Ho imparato ad affrontare, accettare l’idea della perdita.
Però, sempre per telefono debbo avere certe notizie, certe perdite…
© Marco Vignolo Gargini