È il 30 Gennaio del 1948 quando la ‘Grande Anima’, il Mahatma Gandhi, sta percorrendo il giardino della Birla House di Nuova Delhi. È diretto verso il modesto palchetto dal quale parlerà ai fedeli, una folla di cinquecento persone che in quel momento è in attesa del leader politico e spirituale dell’intera India. In quella fatale, lenta, passeggiata, Gandhi è sostenuto dalle due nipoti Alva e Manu, debole e sottile come siamo abituati a immaginarlo, come milioni di fotografie lo hanno immortalato, vestito di stracci, dei suoi occhiali e di un sorriso che sembra ispirato da tutta la serenità dell’universo. È un attimo, quando il fanatico, estremista indù Nathuram Godse si inchina in segno di riverenza ai suoi piedi. Dopo essersi alzato Godse estrae la pistola e spara tre colpi, uccidendo un uomo, rompendo per sempre la pace di un popolo.
Piegato su sé stesso e mentre la sua tunica si colorava del rosso scuro del sangue, Gandhi solleva le braccia in segno di saluto per i fedeli, mentre la folla si stringe in un cerchio di rabbia intorno all’assassino, che viene fermato nel suo tentativo di togliersi la vita con la stessa arma con la quale ha spezzato quella di Mohuamdas Karamshand Gandhi.
Cerca di scappare però, alla fine, il trentenne Godse, nella sua divisa militare cachi e con la sua pistola tra le mani. Preso da un momento di sconforto probabilmente, rallenta il passo e lascia che la folla vada avanti con il linciaggio rabbioso, linciaggio interrotto dalle forze dell’ordine che lo conducono in una stazione di polizia. Viene rinchiuso in isolamento e sorvegliato a vista notte e giorno, l’assassino di Gandhi.
Il Mahatma intanto lotta per la vita all’interno della Birla House, nella sua modesta, disadorna camera. Cerca di rasserenare la disperazione dei fedeli in lacrime con cenni di gesti e sorrisi deboli, mentre ascolta il parere del medico che lo ha soccorso e seguito all’interno del palazzo. I proiettili hanno trovato spazio nel cuore e nello stomaco del piccolo, grande, uomo. Sono le 17.46 quando prima di adagiare il capo per sempre, Gandhi si rivolge ai fedeli intorno al suo letto e sussurrando chiede loro un ultimo, estremo, gesto di magnanimità: ‘non infierite sul mio assassino’. Con queste parole si spegne per sempre un uomo, un’idea, un’ispirazione, un’epoca.
L’8 Novembre 1949 Nathuram Godse viene condannato a morte. Viene ignorata l’ultima preghiera, l’ultima richiesta del Mahatma. Godse è mosso da sentimenti controversi, all’inizio della sua carriera da giornalista era un accanito sostenitore del Mahatma, subendo violenze, torture e prigionia per questo ma sembra che negli ultimi anni sospettasse una collusione tra Gandhi e le fazioni mussulmane e il governo Pakistano e, la definitiva delusione che innescò la miccia, fu la richiesta di Gandhi al governo indiano di effettuare un pagamento in favore dei pakistani. Convinto che Gandhi sacrificasse gli interessi del paese e del popolo per ottenere consensi, il suo amorale estremismo lo portò a compiere l’omicidio.
La sentenza di morte venne eseguita una settimana più tardi, nonostante moltissimi sostenitori del Mahatma si dichiararono contrari, in ricordo dell’ultima preghiera del loro leader.
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