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Perchè l’integrazione con l’Islam è così difficile

Creato il 13 gennaio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’assemblea costituente si riunisce ed esaurisce il suo potere una volta per tutte, vincolando i figli ai padri e sancendo i dettami fondamentali del nostro Stato, la forte vocazione Cattolica dell’Italia, da sempre per le ragioni tanto ovvie quanto numerose presente nel nostro paese, viene mitigata dalle forze più laiche, forti anche di una comprensibile reazione contro il precedente regime fascista. Esso, che con la Chiesa aveva dimostrato di dialogare ben più che volentieri, aveva non solo sancito quei patti Lateranensi che ancora oggi sopravvivono, malgrado la necessaria riforma attuata nel 1984, ma aveva preso a piene mani, laddove gli conveniva, dallo Statuto Albertino, ed in particolare conservato “con coscienza e volontà” quell’idea di imporre una religione allo Stato che lo stesso Statuto sanciva addirittura nel suo articolo 1. Come a dire: tutto ciò che segue è mera conseguenza di questo:

“La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi. “

L’idea di “tollerare” gli altri culti, già esistenti, e dunque la previsione di non poterne tollerare di nuovi, lasciava pochissimo spazio ai praticanti altre fedi. In nome dell’unità nazionale, e senz’altro per compattare le menti dei fedeli alla Chiesa con le menti dei fedeli al Fascismo, il regime del Ventennio aveva introdotto una serie di norme, talune delle quali sopravvivono in qualche modo, per consuetudine, ancora oggi: il crocifisso nelle scuole pubbliche ne è l’esempio più eclatante.

Con la riammissione di forze politiche di segno opposto rispetto al fascismo in Costituente, e con il cambiamento radicale della concezione del mondo degli italiani (tanto che, si racconta ironicamente, gli americani e gli inglesi, invadendo l’Italia, avevano pensato che la popolazione italiana fosse raddoppiata nel giro di cinque anni: prima, tutti fascisti; poi, tutti antifascisti), ci si era resi perfettamente conto delle enormi violazioni ai diritti fondamentali dell’uomo perpetrate dal precedente regime. La libertà religiosa, della quale ci si occupa, faceva parte di questi diritti: e infatti, nella scelta del legislatore Costituente, viene sancita nella prima parte del nostro testo Costituzionale, all’articolo 19, poco dopo altre libertà ancora più pregnanti come l’inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza. Non solo questo: l’interesse enorme che la Costituente provava verso la libertà religiosa viene dimostrato ancora prima, agli articoli 7 e 8: i primi, i più importanti, i principali. Questi si occupano di sancire una volta per tutte come lo Stato debba rivolgersi alle confessioni religiose. Per importanza storica, e per evidenti ragioni di maggioranza, alla religione Cattolica viene destinato un intero articolo: il 7. Le altre religioni, tutte, nessuna esclusa, sono demandate all’8.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Oltre a sancire la loro eguaglianza, in negativo, perchè nessuna di loro conta alcunchè nella vita dello Stato, e dunque sono tutte pari a zero nella loro influenza, e sono subordinate all’ordinamento giuridico del nostro paese, la nostra Costituzione prevede un meccanismo particolare che va seguito nei rapporti tra Stato laico e confessione religiosa: la stipulazione di intese.  Il meccanismo, sulla carta perfetto, consiste nell’individuare, all’interno della confessione religiosa, un nucleo principale, gerarchicamente sopraordinato agli altri, che sia guida per la religione almeno all’interno del territorio italiano, e dialogare con esso. Tutte le confessioni religiose principali, comprese anche talune, di nuovissima formazione, hanno, prima o dopo, individuato al loro interno questo nucleo principale, e l’hanno mandato a dialogare con lo Stato. L’Islam, invece, non è ancora riuscito ad individuare un nucleo sovraordianto e a stipulare dunque intese con lo Stato Italiano.

Accettare un’intesa significa porsi correttamente nei confronti dello Stato laico degli anni 2000: accettarne i valori. Accettare quella famosa massima: “libera chiesa in libero Stato”. I vantaggi dati alla confessione religiosa sono notevoli: attraverso le intese è possibile arrivare pressocchè a qualsiasi accordo. Significa avere la possibilità di far sentire la propria voce, da piccolezze come l’acquisizione di un terreno pubblico per edificare lì un edificio di culto, a dimostrare i propri interessi al Parlamento durante la sua attività di legiferazione.

Carlo Cardia, nel “Manuale di Diritto Ecclesiastico” edito da Giappichelli nel 2010 e utilizzato sovente come testo universitario di riferimento (non solo a Torino), individua queste particolarità nell’Islam, che hanno impedito il formarsi di un’intesa:
“L’islam non è strutturato unitariamente: non ha un corpo clericale ordinato. Vive attraverso una molteplicità di comunità, centri, moschee, autonomi gli uni rispetto agli altri, che ispirano la propria condotta ad un ventaglio di principi considerevolmente diversi. Alcuni più vicini a quelli propri delle società democratiche; altri più legati ad una concezione arretrata della famiglia, del ruolo della donna, della libertà religiosa”.

La mancanza di un centro nevralgico della fede islamica, con il quale fosse possibile dialogare e stipulare queste intese, è in realtà sintomatico di un problema molto più grave, cioè del fatto che l’Islam, che pur può essere inteso in senso moderato e moderno, può anche portare con sè concezioni molto distanti dai valori occidentali di riferimento. Negare questo problema significherebbe innanzitutto dimostrare scarsa conoscenza delle leggi “divine” che regolano il fedele islamico, giuste o sbagliate che siano percepite. Negare questo, significherebbe anzitutto mancare di rispetto alla fede islamica, perchè se il problema si vuole risolvere, va prima di ogni altra cosa conosciuto in ogni sua sfaccettatura.

Posto che lo Stato Italiano ha cercato, fallendo, per più volte di stipulare intese con diversi organi, magari creati anche ad hoc per l’occasione, rappresentativi dell’Islam, la mancanza di dialogo, e l’incredibile frammentarietà di vedute tipica di questa religione, pongono problemi molto diversi rispetto alla semplice “integrazione”. Giuseppe Pisanu, nel 2005 Ministro dell’Interno del governo Berlusconi, tentò ad esempio di istituire la Consulta per l’Islam Italiano, una prima esperienza per individuare, con i diretti interessati fedeli, le esigenze sociali, culturali, e religiose dell’immigrazione di matrice musulmana. Il tentativo, pur positivo, fu purtroppo fallimentare. Nel 2006 Giuliano Amato propose una Carta dei valori che contenesse principi condivisi e rispettati da tutte le confessioni religiose, e che, nell’idea originale, dovesse risolvere i problemi di matrice religiosa legati all’immigrazione. Anche qui, il tentativo fallì, rimanendo una mera proposta.

Sempre Cardia scrive: “L’Italia si trova in una situazione caratterizzata da due elementi: lo Stato non può intervenire direttamente, e creare una struttura rappresentativa dell’Islam, perchè ciò confliggerebbe con i principi Costituzionali che affermano il diritto di ciascuna confessione di organizzarsi liberamente secondo propri Statuti; dall’altra, in Italia la presenza islamica è più recente e appare disomogenea e debole, e la prospettiva di una sua aggregazione unitaria non sembra avere prospettive realistiche di realizzazione.”

Insomma, dove si sbaglia?
Si sbaglia nel non cercare modalità nuove e differenti nel dialogare con l’Islam rispetto alle altre religioni, e nel non considerare che essa non faccia eccezione ai principi di integrazione che ci si sforza di attuare nei confronti di ogni altra confessione religiosa. Allo stato attuale dei fatti, è legittimo pensare che una integrazione, così come la intendiamo nel senso comune, con l’Islam sia complessa.

D’altra parte, basta una breve ricerca su google o un paio di chiacchierate con l’uomo medio della strada per far capire all’interlocutore quanto sia percepita “pericolosa” e diversa la religione islamica rispetto alle nostre basi di convivenza occidentale. Polemiche come quelle riguardanti il velo, e dunque il coprirsi il volto in pubblico; la difficoltà nel gestire l’alimentazione particolare prescritta, soprattutto nei luoghi pubblici; la poligamìa, ancora diffusissima seppure in forma non riconosciuta. Un numero indescrivibile di problemi che invitano a riflettere sul ruolo che l’Islam dovrebbe assumere nella nostra società occidentale, fino al problema dei problemi: il consentire o meno che dei giovani, i figli, nati sul territorio italiano, immersi della cultura del nostro paese, siano educati con dei valori paralleli a quelli occidentali. Di nuovo, negare questo significa non aver preso coscienza della complessità dell’Islam.

Queste problematiche, ovviamente, non debbono far credere che l’Islam sia un mattone unico e che tutti i fedeli siano indottrinati da capo a piedi dal Corano e vogliano vivere nel loro “para-Stato” ignorando gli usi e i costumi occidentali, oppure attivamente impegnandosi per distruggerli. Anche pensare questo significherebbe non aver capito nulla della complessità della faccenda.

In molti si adoperano per aprire l’Islam ad una posizione più moderata, più vicina ai valori del nostro mondo post-illuminista. Tuttavia, e questo è altrettanto innegabile, l’Islam porta con sé tutta una serie di precetti che devono obbligatoriamente essere seguiti dal praticante, che deve essere rispettato come cittadino e come uomo, che però sono incompatibili col mondo occidentale. Quale sia la soluzione di questo spetta al legislatore. I “rischi” citati nei paragrafi precedenti, insiti nella religione islamica, che non ha subito, come accadde tre secoli fa, l’avvento di un movimento di matrice “illuminista”, sono assolutamente esistenti.

Finchè la religione islamica moderata, anche solo all’interno del territorio italiano, non individuerà un interlocutore unico, da cui dipendere e del quale fidarsi, che possa dialogare con lo Stato e mostrare una posizione unica e univoca nei confronti del mondo occidentale, difficilmente potrà parlarsi di vera integrazione. E’ necessario un organo centrale che stipuli intese, che si scagli contro la violenza e le violazioni dei principi fondamentali di uno stato democratico perpetrate negli ultimi giorni in Francia, che si faccia portavoce di quella maggioranza silenziosa di fedeli che capiscono, che riflettono, che colgono il bene che c’è nei diritti fondamentali dell’uomo, ma che al contempo rivendichi la propria appartenenza ad una religione diversa rispetto alle altre. Un organo che sia orgogliosamente diverso rispetto agli altri: che mostri la sua religione in tutte le sue forme, e che protesti, che faccia sentire la sua voce. Che anch’esso indichi la strada del multiculturalismo, ed il suo modo per raggiungerlo.

Ma questo deve venire da dentro la fede: lo Stato non può permettersi di mettere bocca laddove non gli compete. Non può tentare di formare, alle sue condizioni, soggetti con i quali dialogare. Deve essere la fede stessa a proporlo, “organizzandosi secondo i propri statuti.” Prima di allora, qualsiasi tentativo di vera integrazione è destinato a fallire.

Tags:integrazione,islam,religione

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