Pubblicato da fabrizio centofanti su marzo 14, 2012
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Sì, sta per finire. Si fatica a dire addio a una storia: ci hai messo una parte di te stesso, ti resta appiccicata come nebbia del mattino o i fili rossi del cellophane che devi farci a botte per staccartene. Come farai senza più Dalia, che ora guarda con occhi spalancati i corpi ricomposti di Ester e Fawzi, o l’eterna indecisione di Fausto, ritto in piedi con la faccia pallida, che sembra svenire da un momento all’altro, o gli occhi dolci e neri di Rigel, che indovini dietro l’angolo, come se uno sguardo pietoso si posasse su ogni fallimento umano. Ma è proprio un fallimento? Ester è ancora bella: pare finalmente soddisfatta; i bambini della classe si stanno chiedendo perché la maestra non arrivi, stamattina. C’è qualcuno che aspetta, sempre, e non è detto che le attese siano quelle giuste. Fawzi, per esempio, convinto di far saltare un pezzo del sistema: avrà avuto ragione? Per instaurare un mondo nuovo bisogna abbattere violentemente quello vecchio? Qual è il segreto della rivoluzione? La passione più pura non nasconde un’ombra di cinismo che rischia sempre di macchiarla? E la rivoluzione dell’amore? Che armi utilizzare per la riconquista dell’uomo o della donna su cui si è puntato tutto il patrimonio? Ha fatto bene Dalia a passare sopra a tutto, a mettere l’orgoglio sotto i piedi, a rinunciare all’ultimo barlume rimasto di una necessaria dignità? E cosa ha spinto Gilda a prendere di petto le paure, a sfidare la morte, a umiliarsi con la busta di giocattoli pur di far colpo sul suo Arturo? Bisogna morire per rinascere? E’ vero quello che diceva il Nazareno, che non esiste successo che non passi per le forche caudine del dolore? E Rigel, Aldebaran, non sono destinati a esplodere nella catastrofe delle supernovae, nonostante la pazienza e l’attenzione all’altro? A che serve rinunciare a tutto se la fine è comunque bruciare in una luce che non è più il reciproco richiamo dell’amore ma la violenza cieca della morte? E Faust? Che ne sarà del vizio di rubare la felicità, di godere dell’altrui rovina? E Giorgio, Arturo, ancora s’illudono che il romanzo metta ordine nella babele infinita dei pensieri e delle azioni? Ancora si ostinano a cavare una goccia di sangue dalla rapa secca della storia? E Marius? E’ l’unico che ha capito qualcosa del rebus astruso che è la vita? E se il simbolo della condizione universale fossero i due corpi stesi a terra, coperti da un lenzuolo bianco come dal telo prezioso dell’altare, vittime sacrificali di un meccanismo che schiaccia tutti i sogni e abortisce anche l’ultima utopia? Dalia ha le mani sulla bocca, una lacrima attraversa la guancia e finisce sull’asfalto insanguinato. Avverte una mano che si posa sulla spalla, un alito caldo che le sfiora il collo. Non riesce a voltarsi, pietrificata dallo sguardo vitreo di Medusa, che la fissa dal bianco del lenzuolo.
- Dalia.
Chi ti chiama? Sarà l’inseguitore? O l’uomo dal soprabito scuro e la sciarpa chiusa nell’interno? Sei una statua in pietra incapace di parlare e forse di pensare; tocca a qualcun altro pronunciare una parola, spezzare l’incantesimo durato troppo a lungo.
- Ti amo.
Il suo respiro è come l’alito di Dio sul fango delle origini, l’adamà intrisa nel nulla dei millenni. Senti che qualcosa si muove, dentro te: un guizzo, una scintilla, è la luce dei lampioni aggrappati agli argini dell’Arno, mentre il fiume si allunga come un serpente d’acqua fino all’orizzonte. Non sai da dove venga la forza che ti spinge a girarti lentamente, a incrociare il suo sguardo lucido di lacrime, di stelle: Sirio, Antares, Rastabàn.
FINE