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A Bascapè pioveva

Creato il 27 ottobre 2012 da Tnepd

A Bascapè pioveva

A Bascapè pioveva Bascapè non è un nome da provincia lombarda, anche se è quello di un antico casato di feudatari del pavese. E’ un nome esotico, africano, coloniale; ricorda, per assonanza, Macallè, le battaglie dell’illusione imperiale italiana, gli imperatori etiopi.  A Bascapè morì, esattamente cinquant’anni fa, l’imperatore del petrolio italiano, Enrico Mattei, il 27 ottobre del 1962. Pioveva quella sera, ma il Morane Saulnier proveniente dalla Sicilia e diretto a Milano non si avvitò e cadde a causa delle intemperie. Esplose in volo, come raccontò subito un testimone che poi ritrattò per paura e in seguito si portò la verità della palla di fuoco nella tomba, mentre la figlia otteneva già da subito un ottimo posto all’ENI.
L’aereo esplose a causa di un sabotaggio, di un attentato, come ha stabilito l’inchiesta riaperta negli anni novanta dal sostituto procuratore  di Pavia Vincenzo Calia. Mattei era imperatore e con molti nemici e congiurati, anche a corte. I nemici che si fanno di solito i ribelli, quelli troppo orgogliosi per obbedire sempre e rinunciare alla propria visione per compiacere l’interesse altrui. Era di quei dominanti che, quando sono costretti  ad affrontarne altri, sanno che dovranno combattere fino all’ultimo sangue.

Chi poteva volere la testa di Mattei? Le compagnie petrolifere, le così dette Sette Sorelle, per punirlo della sfacciata pretesa di indipendenza e riottosità verso le regole del commercio energetico, asset fondamentale ed intoccabile del dominio imperiale angloamericano?
Il governo americano, vista la spregiudicatezza con la quale Mattei dichiarava di voler sottoscrivere accordi energetici con i paesi arabi e l’Unione Sovietica, praticamente alla pari? O il governo inglese, come suggerito da recenti rivelazioni contenute in documenti desecretati di intelligence, allarmato dalla concorrenza di Mattei sulle rotte petrolifere britanniche e dal corteggiamento nei confronti dell’URSS?
Mattei fu dunque una vittima del risiko della guerra fredda, eliminato con una operazione in nero, nei giorni dei Missili di Cuba, c’è chi dice proprio approfittando della crisi? Personalmente credo che i due fatti non siano collegati ma solo concomitanti. La crisi era troppo grave per poter pensare ad altro che a risolverla senza far saltare in aria il mondo a colpi di bombe atomiche. Non c’erano tempo ed energie a disposizione, in quei concitati giorni pre-apocalittici, per progettare di eliminare un fastidioso guastafeste in una provincia lontana dell’Impero, a meno che l’operazione non fosse già programmata da tempo.
Anche la pista dell’OAS, sulla base delle minacce del terrorismo francese di destra effettivamente giunte a Mattei non convince, se non come depistaggio. C’è anche da dire che Mattei  aveva infine stabilito un buon rapporto con l’amministrazione Kennedy ed era in procinto di effettuare un viaggio negli Stati Uniti. Un viaggio di distensione dopo gli aspri contrasti del passato. Poco più di un anno dopo, anche il presidente Kennedy cadrà vittima di un attentato, eseguito a regola d’arte, nello stato più petrolifero d’America.

L’ipotesi più accreditata sulla morte per assassinio di Enrico Mattei è comunque la pista della congiura di palazzo, del complotto politico, con l’appalto alla mafia della logistica dell’attentato. Un affare in gran parte italiano, insomma, del quale beneficiarono sicuramente anche gli interessi atlantici. Un intreccio di interessi partitici, personali e di potere all’interno dell’ENI. La creatura di Mattei che, alla fine, gli si ritorce contro. E’ l’ipotesi criptata da Pier Paolo Pasolini in “Petrolio”, dove il protagonista del romanzo allude pesantemente ad Eugenio Cefis, il successore di Mattei alla guida dell’ENI e personaggio assai discusso non solo in relazione a questo mistero italiano.
Politica, strategia ed energia, allora come oggi, sono elementi di un sistema in equilibrio precario e assai delicato, sempre pronto ad incrinarsi. L’assassinio di Mattei è atto sicuramente politico, strategico e legato agli interessi dell’energia, allora quasi totalmente legata al petrolio. In un preciso momento, Enrico Mattei è divenuto scomodo per alcuni e la sua morte è stata vista come vantaggiosa per tutti. Forse non c’è stato bisogno nemmeno di dare l’ordine.

Sono trascorsi cinquant’anni da Bascapè. Se anche oggi abbiamo a che fare con le solite questioni energetiche, seppur con attori diversi (ad esempio, non c’è più l’URSS comunista ma gli oligarchi), e il petrolio la fa ancora da padrone, essendo ancora la fonte più economica di energia, possiamo chiederci allora quanto fosse diversa l’Italia di Mattei da quella di oggi.
Per certi versi non è cambiata di molto, per altri stiamo guardando ad un altro pianeta.
I partiti erano anche allora una casta di potere, come quelli delle Milano da bere e delle Roma da sbranare di fine ventesimo secolo. La differenza forse consisteva in un certo pudore ed autolimitazione della ruberia che poi è andato via via scomparendo, fino alla completa rottura degli argini della corruzione in questo inizio secolo ventunesimo.
Anche allora quindi corruzione e tangenti? Certamente. Quello è un male endemico, inestirpabile del nostro paese, una vera tara genetica antecedente alla repubblica.
Sempre le suddette recenti rivelazioni di intelligence confermano che il delitto Matteotti del 1924 sarebbe stato legato ad un episodio di corruzione, uno scandalo petroli ante litteram, che coinvolgeva il regime fascista e perfino persone vicinissime a Mussolini. Sembra che Matteotti stesse per denunciare la corruzione in parlamento e che sia stato eliminato prima che potesse parlare.
Corruzione, tangenti e politica. Mattei, per sua stessa ammissione, saliva sul taxi, ovvero si serviva dei partiti, pagava la corsa e scendeva. Pagava tutti, senza favoritismi, anche se era politicamente un democristiano ed ex partigiano bianco.

Una cosa però rende l’Italia di Mattei profondamente diversa da quella attuale. L’Italia del cane a sei zampe, di Cortemaggiore, la potente benzina italiana, era un paese dove lo Stato non era ancora una parolaccia impronunciabile nei salotti buoni. Esisteva lo Stato, non il sistema paese, entità proteiforme che ormai nasconde soprattutto l’interesse privato e delle servitù clientelari, a scapito di quello collettivo.
Il laissez faire e l’ultraliberismo erano costretti a convivere con una concezione economica predominante che prevedeva ancora il primato dell’interesse generale, potremmo dire l’etica della spinta al benessere per tutti.

Mattei aveva una visione, come si dice oggi con un termine assai abusato. La visione bruciante del petrolio, dell’energia che muove il mondo e le altre stelle. Una visione industriale ma soprattutto politica.
Prende in gestione l’AGIP subito dopo la seconda guerra mondiale, nel momento in cui si pensa di dismetterla, di svenderla perché improduttiva.
Cocciutamente, servendosi abbondantemente della politica, che conosce dal di dentro, la salva e la trasforma in ENI, la più importante azienda statale italiana. Statale.

La visione di Mattei era l’indipendenza energetica italiana. Indipendenza quindi sovranità nazionale. Due cose che all’Italia erano negate a causa di vecchi debiti di guerra calda e a nuovi vincoli ed alleanze da guerra fredda. L’Italia era considerata un protettorato. Il cane a sei zampe di Mattei a cuccia non ci voleva stare. Troppe zampe per poter restar fermo. Se Mattei intreccia alleanze con i paesi energeticamente emergenti, propone contratti a loro favorevoli, spariglia le carte alle Sette Sorelle, le multinazionali del petrolio, cerca il profitto, sicuramente, lo fa sempre per il progetto dell’indipendenza energetica dell’Italia attraverso la sua grande industria statale ENI. Sempre in nome di una visione che non è di un singolo, dell’imprenditore, del privato, ma di un popolo, collettiva.
Intendiamoci. Mattei non è un santo, anche se è morto martire. A volte bluffa, bara sui dati del petrolio che riesce a trovare trivellando la Pianura Padana (allora non ancora Padania). I suoi pozzi non sono ricchi come quelli del Texas ma lui fa scrivere sul “Giorno”, il suo giornale aziendale, che a breve l’Italia galleggerà su un mare di oro nero. Per certi versi è sulla linea dei grandi imprenditori corsari italiani.
Per difendere l’ENI sarebbe disposto a  tutto. L’ENI, non sé stesso. Infatti non si tira indietro neppure quando capisce che la sua visione spregiudicata lo porterà all’inevitabile redde rationem.

Una delle cose che più sorprendono il lettore che legga la biografia di Mattei e che marca la differenza con l’attualità, è scoprire che era ricco, si, ma della ricchezza di un capitano di industria di allora. Un povero, quindi, in confronto ai CEO dei nostri tempi, dalle buonuscite milionarie in dollari sempre più spesso totalmente immeritate perché ricavate da aziende ridotte in macerie dalla politica del profitto per il profitto.
Se Enrico tornasse in mezzo a noi penso che farebbe molta fatica a capire il concetto di stock option e i 17 milioni di euro di stipendio annuale di un Marchionne, per non parlare della scarsa affezione che quel tipo di imprenditori sembra dimostrare alle aziende e soprattutto ai loro dipendenti.

Se l’Italia è diventata solo più spregiudicata e cinica, rimanendo però la serva che è sempre stata, è soprattutto il capitalismo che è cambiato profondamente, dai tempi di Enrico Mattei. E’ tornato quello spietato delle origini, con l’aggravante che, avendo scoperto la formula magica per moltiplicare il denaro all’infinito, invece di sognare la piena occupazione e il benessere per tutti, delocalizza e impone rigore e sacrifici umani sull’altare del suo unico dio, perché quello è l’unico modo per rinnovare ogni volta la magia della moltiplicazione.
Questo capitalismo non riesce più a far nascere uomini come Enrico Mattei. E ad Enrico Mattei, certamente, non piacerebbe.


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