L’arbitraggio delirante di Rodriguez Moreno e il vampirismo di Suarez non debbono distoglierci da una constatazione a mio avviso doverosa: l’Italia che torna a casa, purtroppo, è un’Italia scarsa. Scarsissima, se si considera la nostra tradizione calcistica. Bene ha dunque fatto Cesare Prandelli a dimettersi riconoscendo il fallimento di un progetto rivelatosi debole già prima della sconfitta, come ha mostrato pure la tardiva e repentina variazione di schemi, dal 4-1-4-1 al 3-5-2. Detto questo, e nella speranza che il deludente epilogo di questo Mondiale insegni qualcosa, evitiamo processi infiniti.
Evitiamo di piangerci addosso dando modo a chiunque di sparare a zero sulla nostra nazionale (ieri in televisione, per dire, hanno chiesto un parere – non scherzo – persino a Pippo Baudo), salvo poi magari lamentarci del fatto che il mondo crede poco in noi, quando siamo i primi a non credere in noi stessi. La nazionale non è l’Italia, d’accordo. Ma è pur sempre la nostra proiezione, l’inevitabile riflesso di quel che siamo. Nonostante la sconfitta non posso quindi fare a meno – chiamatemi pure cretino – di anteporre l’auspicio alla critica, la speranza alla pur grande delusione.
Non è chiaro chi succederà a Prandelli, se Mancini, Allegri, Spalletti oppure don Fabio Capello, al momento ancora della Russia. E’ chiaro però che la nazionale deve cambiare; gioco, forse giocatori, sicuramente spirito. Perché non basta sapere cantare l’Inno di Mameli, occorre sentirlo. Occorre sapere – o ricordarsi – che quando vesti l’Azzurro hai molto di più di una maglia. Hai addosso i sogni e il sudore di un Paese intero, di gente che mentre fatichi ad arrivare in fondo al campo, spesso, fatica ad arrivare a fine mese. Di gente che dice di snobbare il calcio ma poi, alla fine, è sempre lì. A tifarti come si fa per un amico, un figlio, un fratello.