(Come ogni anno, il mio pensiero per Fabrizio De Andrè, in un post pubblicato l’11 gennaio di due anni fa).
Una sciarpa del Genoa annodata al Collo
Once upon a time in Terronia: 16 years ago.
Già a dicembre si era sparsa la voce che De Andrè sarebbe venuto a cantare nell’unico teatro della città, durante il suo tour. Molti di noi si erano messi a caccia dei biglietti, ma erano scoraggiati dai prezzi mostruosi a prova di usura. Pezze al culo come eravamo ce li potevamo solo sognare.
Durante una cena natalizia, mia madre ad un certo punto se ne esce con:
“Sai che quell’astrologo che frequentiamo noi, Pinco Pallino? Beh, è molto amico di De Andrè. Ha detto che se vuoi ci procura i biglietti.” La mia risposta fu entusiasta: “Come no. Certo che ve li beccate tutti voi, i cazzari…”
Passa qualche giorno, mia madre rientra da lavoro e mi sbatte sul tavolo due biglietti di platea per il concerto. E aggiunge: “ha detto l’astrologo che se vogliamo ha dei posti liberi per la cena dopo il concerto, dove va a mangiare De Andrè coi musicisti”.
Assumere ancora una volta la postura a metà tra uno spaccone e San Tommaso non me la sentivo, con quel popo’ di biglietti che mi ritrovavo in mano, quindi decisi di mangiare la foglia e scegliere la via dell’umiltà: “Va bene, sarebbe bello”. Dentro di me però pensavo, minchia è proprio un cazzaro.
Arriva il sabato del concerto. Siamo io e mia madre, accompagnati da mio padre, che aspetta fuori per raggiungerci solo a cena. A lui di De Andrè non fregava nulla, ma dico nulla, anzi, disprezzava tutti sti cantautori ricchi di sinistra tanto pieni di buone intenzioni, sti microintellettuali rintanati nelle loro magioni a descrivere vite e difficoltà che non avevamo mai vissuto in prima persona, sti snob ipocriti e scaltri che si facevano pagare 20 milioni a concerto, sti... insomma, s’è bello che capito, al mio elettore (allora) missino preferito i cantautori stavano sui coglioni.
Tre ore di concerto, canzoni e intermezzi di parole. Attenzione. In uno di questi intermezzi De Andrè si mette a parlare del modo usato per tradurre le canzoni di Brassens. Parla di traduzioni libere, che lui prediligeva, e di traduzioni letterali, che odiava, portando ad esempio una meccanica traduzione di latino di un passo delle Catilinarie di Cicerone pretesa dal suo professore di latino quand’era studente. Mi accorgo però, da bravo secchione con la mia media dell’8 in latino, che citando quel passo lo stava traducendo male, tramutando Cicerone nell’avvocato, anzichè nell’accusatore di Catilina. Vi viene il latte alle ginocchia? Sappiate che questo punto è tristemente cruciale per il seguito.
Usciamo e incontriamo mio padre, infreddolito e affamato. Sono le 11 e mezzo, e per quanto siamo nel meridione d’Italia, non siamo certo in Andalusia, e a quell’ora se non hai mangiato ti vengono i crampi, sopratutto se sei mio padre. Ci rechiamo al ristorantino in centro indicatoci, è aperto, diciamo chi siamo, e ci fanno entrare, insomma cazzo comincio a credere che il tutto sia vero. Ci mettiamo al tavolo, attendiamo. Mio padre, nervoso e poco a suo agio, sopratutto affamato come un lupo, comincia a tampinarmi coi suoi “figuriamoci quanto ci farà aspettare la rockstar, io tengo fame, perdio, io adesso ordino lo stesso”, e mia madre a placarlo e trattenerlo. Mio padre sa essere uno straordinario iconoclasta, quando gli gira, e distruggere i miti creati dalle persone è un compito, se non proprio un piacere, che si autoassegna ancora oggi con dedizione. Quella sera aveva deciso di distruggermi De Andrè. E l’occasione gli venne servita sul piatto d’argento dopo appena dieci minuti, quando alla chetichella arrivò dapprima tutta la band, infine, ve lo giuro sul canguro, arrivò proprio lui.
Il suo ingresso fu per me a dir poco traumatico. Entra infatti nella sala un ometto con gli occhiali a goccia fumè, in giacca nera piuttosto corta, maglione largo e jeans. E sopratutto esibisce al collo, come una stola di pelliccia, la più gigantesca e pacchiana sciarpa rossoblù del Genoa che fosse mai stata indossata da un ultrà. Lui, Fabrizio De Andrè, il mito, il poeta, con una pacchianissima sciarpa di una squadra di calcio. Lo guardo, lo riguardo, distolgo lo sguardo, e davanti a me mi aspetta quel merdone di mio padre, con un sorriso tagliente e raggiante, già sarcastico ancor prima di aprir bocca: “e quello sarebbe il famoso De Andrè? Pare un barbone della stazione.” Deglutisco, ancora spiazzato, ma insomma, dico a me stesso, doveva venire vestito come Dante in tunica rossa e ramoscelli d’alloro? Chissenefrega come si veste.
Certo però, quella sciarpa.
Si mangia, mio padre è nel suo, sbocconcella tutti gli antipasti, poi il primo, io invece ho lo stomaco chiuso, ogni tanto guardo De Andrè, è a 5 metri da me di lato, sulla tavolata principale dei musicisti. Parla, mangiucchia, fuma senza soluzione di continuità, cerco di sentire cosa dice, ma tutto intorno è un risucchio di cibo e un tintinnare di stoviglie. Lui è tranquillo, si diverte. Ogni tanto qualcuno si alza dai pochi tavoli degli ospiti, e va a disturbarlo per chiedere autografi, stringere mani, insomma, rompere il cazzo. Mio padre mi guarda divertito: “beh, che aspetti, non vai a salutarlo?” Io scuoto la testa, non disturbo la gente, non voglio fare la figura dal fan sfegatato. “Ecchessaramai”, dice mio padre, “vai un attimo e lo saluti, no? ” Ma manco per niente, dico io.
Dopo cinque minuti esce non so come che De Andrè era di Genova. Lo sanno tutti, pure i somari, ma mio padre non lo sapeva. Lui ha passato la giovinezza a scorrazzare per Genova. E allora mi dice: “non ci vai tu? e allora ci vado io”. Si alza e parte. Io non faccio a tempo a richiamarlo un paio di volte rischiando di uggiolare come un cane e lui è già via, passa dietro i musicisti, approfitta della sedia libera accanto a De Andrè, e si siede. De Andrè si gira, lo guarda incuriosito, piacere, strette di mano, e da lì, per 3 minuti, parlano fitto fitto dio solo sa di cosa, ridacchiano, addirittura mio padre ad un certo punto gli mette un braccio al collo, sembrano due avvinazzati che si conoscono da una vita. Io mi sento di morire.
Lo spudorato torna al tavolo. “Che cazzo vi siete detti”, e la mia non è una domanda, e ora che ci penso forse è la prima volta che dico “cazzo” davanti a mio padre. “Ma no, gli ho parlato dei tempi di Genova, lui si è interessato subito, insomma, quattro puttanate, si è messo ad ascoltare, insomma non è proprio malaccio come tipo. Adesso però ci vai tu.”
Umiliato in tal modo, non posso evitarlo. Il primo pirla che passa, ovvero mio padre, se l’è andato ad abbracciare, io non posso fare altro che alzarmi. Arrivo davanti a lui, inghiotto, e mi presento:
“Piacere, Paperoga”.
Mi tende la mano, tranquillo e sorridente. Ha un faccione solcato da una pelle rugosa e spessa, la palpebra cadente: “Piacere Fabrizio”.
E mò che cazzo gli dico? (Ti prego, non dirgli che lo ascolti da sempre…non dirgli che lo ringrazi per tutto quello che ha cantato…non dirgli che per te lui è un esempio…non chiedergli che cazzo significa il testo de La Domenica delle salme, insomma non dirgli qualsiasi stronzata da diciassettenne fissato e patetico)…Ascolto la mia voce di dentro, e dopo un conciso e non sperticato elogio del suo concerto (del tipo “bel concerto, fratello”) decido di parlargli? Di cosa?
Ma della traduzione sbagliata del passo delle Catilinarie, è ovvio. Non mi ricordo manco come, ma devo avergli detto: “sai, io sto studiando Cicerone adesso, tu hai tradotto quel passo, ma è sbagliato, Cicerone non difende Catilina, lo accusa, così, ci tenevo a dirtelo”.
Lui rimane sorpreso, certo credo di essere stato molto originale nel fargli i complimenti, rimane perplesso (adesso mi manda a fare in culo in genovese stretto) e invece mi dice: “eppure io ricordo quel passo esattamente….ma adesso che mi ci fai pensare…ma sei sicuro?…belin, allora mi stai dicendo che sono anni che nei concerti racconto una puttanata? Beh, ti ringrazio, hai fatto bene a dirmelo.”
Un’altra stretta di mano, un sorriso, e mi risiedo al mio posto. La serata, per quanto riguarda i ricordi, si conclude lì.
Non so se fu una risposta di comodo, per accomiatarsi da uno scocciatore. Non so se ripetè nei concerti lo stesso aneddoto, incurante.
Quando morì a mio padre dispiacque. Pensa te. A mio padre.