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A Medjugorje (e dintorni) fuori dagli schemi

Creato il 03 giugno 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giovanniag su giugno 3, 2012

Testo di Giovanni Agnoloni, foto di Andrea Fantini

A Medjugorje (e dintorni) fuori dagli schemi

Il luogo delle apparizioni, sul Podbrdo

Parlare di un viaggio a Medjugorje può rivelarsi difficile. Si rischia di far arrabbiare tanta gente, credente e non. Con queste righe, voglio scansare questo semplice inghippo, che di per sé scoraggia alla lettura, disinnescando le tematiche spirituali e il mio stesso modo di pormi davanti alla fede.
Questo è un reportage, che riferisce fatti e sensazioni. Perché un pellegrinaggio, in definitiva, è un viaggio, e ogni viaggio è, a suo modo, un pellegrinaggio.
Io oggi sono un credente, o meglio, come direbbe Joseph O’Connor, un “vero credente”, nel senso che rifuggo dalle ritualità esteriori bigotte e recitate, e mi calo nella vita. Per me la spiritualità e il rapporto con il Divino sono la ricerca e il dialogo costante con il centro dell’essere, il Sé, la radice dell’identità. E, come prima di partire ho scritto su Facebook, da questo viaggio non mi aspettavo miracoli o rivelazioni sconvolgenti, ma conferme.
Sono arrivate, anche se, come in ogni buon romanzo, in modo piuttosto sorprendente.

A Medjugorje (e dintorni) fuori dagli schemi

Il porto di Ancona alla partenza

Dopo la traversata in mare da Ancona a Spalato con mio cugino Andrea Fantini, matematico pure lui cristiano fuori dagli schemi, il tragitto in auto fino a Medjugorje è stato un percorso nel cuore di una natura scabra e montagnosa, tagliata come un graffio dalla modernissima A1 croata. Poi, dalla fine di questa alla nostra destinazione, passando per la frontiera bosniaca, è stato un susseguirsi di curve e colline boscose aperte su una pianura piatta e mossa da coltivazioni verdeggianti. Un’eco di Vietnam, o comunque di Sud-est asiatico. Mal d’auto del sottoscritto.
Medjugorje si annuncia all’improvviso, e quasi ti ci ritrovi dentro, con la sua proliferazione di alberghi, casette più o meno moderne e negozietti i più vari, che fanno corona alla chiesa parrocchiale e ai luoghi delle apparizioni della Madonna, che sono qui testimoniate fin dal 1981. Prima c’erano solo coltivazioni, soprattutto di tabacco, e pascoli per i pastori e le loro bestie.
In me non ha prevalso il fastidio per la “commercializzazione del sacro”, pur innegabile. Questa gente di qualcosa deve pur vivere. E, come avrei visto nei due giorni seguenti, è per lo più brava gente, segnata dai ricordi della guerra civile e, naturalmente, da quanto qui è successo e succede ancora.

A Medjugorje (e dintorni) fuori dagli schemi

La Croce blu

Mi ero avvicinato a Medjugorje con l’intenzione di lasciarmi invadere dalla sua energia, di farmene depurare. E deve aver iniziato subito, perché, complici anche la mia nausea da curve e gli acciacchi lasciatimi addosso dalla recente influenza, dopo l’arrivo alla graziosissima Pansion Ruśka (nel sobborgo di Biaković, tel. 0038-763870025), stavo piuttosto male. I luoghi carichi di spiritualità mi fanno spesso quest’effetto. Mi lavorano dentro. Fa parte del (mio) gioco.
Comunque, la crisi è passata piuttosto rapidamente (fortuna che ho un cugino paziente e comprensivo), e dopo un pasto veloce siamo usciti per andare verso il Podbrdo, il colle delle apparizioni, praticamente sopra l’albergo. Prima abbiamo sostato una decina di minuti davanti alla Croce blu alla base della collina. E qui ho cominciato a rendermi conto dell’energia particolare di questo posto. Una filigrana speciale, quasi un fumo velato diffuso su tutte le cose, che anche senza imbottirsi il cervello di litanie non sentite (ammesso che non lo siano e quando non lo sono, per carità), ti arriva e ti spiazza.
Poi siamo saliti su inerpicandoci tra la terra e i sassi sconnessi del Podbrdo. Ascesa decisamente non agevole, per uno rotto e indolenzito. Ma ci tenevo. Varie stazioni, lungo il percorso, con gente che pregava. Per me, soprattutto soste per riprender fiato. Infine, l’arrivo al punto delle apparizioni, con una statua di Maria e, poco più in là, un Crocifisso. La cosa che più colpisce, qui, è la quiete assoluta. Indipendentemente da quanta gente c’è, e anche dai sussurri, il silenzio impera, dal fuori al dentro e dal dentro al fuori. Mi è venuto spontaneo pregare, come solamente concepisco la preghiera, come genuino canto del cuore, pensando alle persone a cui voglio bene, ma anche a me, al mio percorso. Il caldo era tanto, l’acqua rimasta nella mia bottiglia scarsa. Non che ne soffrissi, ma siccome Andrea voleva restare un po’ più a lungo, mi sono ben volentieri messo ad aspettare vicino a un gruppetto di persone sotto un arbusto alto, che faceva ombra.
E lì ho capito.
Mentre dietro di me quattro italiani mormoravano un “Padre Nostro” tenendosi per mano, con voci impostate che destavano in me un’orticaria da fastidio (non per la preghiera, ma per il tono), ho compreso che la mia strada era e sarebbe stata diversa. Che sono un uomo del fare, che per me lo spirito è (nel)la materia, e la preghiera è il lavoro. È la mia strada, naturalmente, non la verità assoluta. A ognuno la sua.
Ridiscesi giù e rifocillatici in un baretto, siamo tornati in albergo per una doccia e la cena. Un gruppo di pellegrini di Lodi ci ha invitati a unirci a loro per l’Adorazione in programma in chiesa alle 22. Ma eravamo cotti. Siamo andati a letto.

Il giorno dopo, colazione e messa. Doveva essere in italiano, ma abbiamo sbagliato. Non era nella parrocchia, ma in un altro punto, che abbiamo mancato. Lì era in croato. L’abbiamo presa lo stesso, cercando di fare lo slalom tra le parole. Mi sono appoggiato alla mia imperfetta conoscenza del polacco e ne ho cavato più o meno le gambe. Grande afflato, e grande rispetto per una spiritualità qui davvero profonda, per nulla recitata.
A seguire, breve passeggiata nel caldo torrido della tarda mattinata, nella spianata retrostante la chiesa, fino alla statua bronzea del Cristo dalle cui ginocchia fuoriesce un liquido misterioso. Trasparente, sembra acqua ma non lo è, e non si capisce come venga prodotto. Nuovo attacco di orticaria verso i fedeli che usano fazzolettini distribuiti ad hoc da un ragazzo con l’aria a figlio dei fiori, per portarselo a casa, baciando teatralmente le ginocchia della statua e sostandovi davanti un paio di minuti a testa. Noi ci siamo stati dieci secondi, l’abbiamo toccato e ci siamo fatti il segno della Croce. Stop. Se è un miracolo, per me va bene, ma personalmente non credo che conti tanto lo stupore magico, ma il valore intimo-archetipico di un consapevole contatto col Cuore, col Sé, che anche questi fenomeni, spiazzando, possono facilitare.

Pranzo in albergo. Il gruppo di Lodi riferisce che corre voce che la notte prima, durante l’Adorazione a cui noi non siamo stati, un ragazzo libanese paralitico abbia iniziato a camminare. Siamo ovviamente colpiti, anche se continuiamo a pensare che il miracolo di fondo che Medjugorje vuole propiziare sia l’Incontro di cui sopra.

A Medjugorje (e dintorni) fuori dagli schemi

La statua di Maria sul Podbrdo

Pennichella. Risveglio. Un’aranciata al bar. Un’oretta di lettura davanti all’hotel. Un SMS di Venanzio Poloni, amico dell’Albergo Centrale di Fino del Monte, sotto la Presolana, che ci ricorda di andare a trovare Suor Cornelia. Lo facciamo dopo cena. Suor Cornelia dirige un centro intitolato a Giovanni Paolo II che aiuta persone ferite dalla vita. Soprattutto bambini orfani. La incontriamo, e ci accoglie con grande affetto. Sua sorella, morta diversi anni fa, vide anche lei la Madonna, come i sei veggenti di Medjugorje.
Piombano nella saletta delle bellissime bambine, dallo sguardo di grande intelligenza, che ci riempiono di regali. Rosari e immagini di Maria benedette da Lei stessa durante un’apparizione. Un disegno raffigurante Sant’Antonio che una di loro, Desideria, ha fatto apposta per me sul momento e che per me è una conferma e una sincronicità (me lo ritrovo sempre in momenti-chiave).
Suor Cornelia ci parla del tempo della guerra, dell’amore che sgorga da questo luogo e dell’aiuto che ricevono costantemente dalla Provvidenza. Qui durante il conflitto mancava tutto. Ma loro pregavano e pregano sempre, e non gli manca mai nulla. Alla fine, quello che serve in qualche modo arriva. Se volete fate un’offerta o visitarli, il loro recapito, per informazioni, è Obiteljski Centar Ivan Pavao II (ovvero “Casa Famiglia Giovanni Paolo II”) (tel. 0387-36640117).
Una volta c’è stata un’apparizione nel cortile, sotto gli alberi, dove ci sono i giochi dei bambini. Loro sono arrivati a frotte, dicendo che correvano dalla Madonna. Anche gli uccellini affluivano, cantando.
Non giudico. Mi limito a registrare i fatti, a sentirmi i brividi addosso. Suor Cornelia ci raccomanda di restare uniti nella preghiera e di andare al Krizevac, il monte col Crocifisso, dove sono avvenute altre apparizioni.

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Mostar, col suo celebre ponte

La mattina dopo, prima di partire per Mostar, ci proviamo. È dura, soprattutto per me, che non sono ancora in forma. Anche perché, per uno strano errore, imbocchiamo il percorso di discesa dalla vetta, anziché la salita. È più pesante, come ci dicono gli italiani che incrociamo, che stanno scendendo. La cima non si vede, io sono sempre più provato e mi fermo tante volte. Alla fine devo dare forfait. Respiro, e mentre torniamo giù rifletto sul fatto che, in fondo, anche questo è un segno. Non sono chiamato a scalar vette, a puntare a certi luoghi. Il mio compito è viaggiare, contemplando tutto.

Mostar me lo conferma, col fascino frammisto del suo centro storico e del suo famosissimo ponte ricostruito dopo la guerra, col suo incrociarsi di cristianesimo e islamismo e le sue rovine ancora evidenti. Mi riaccoglie nel mondo at large, nella sua ampiezza e ricchezza di sfaccettature.

Eppure, proseguendo il viaggio verso Dubrovnik, lungo il corso dell’affascinante fiume Neretva, non posso fare a meno di notare nell’aria, come in trasparenza, la grana sottile dell’atmosfera di Medjugorje. Anche là dove, accanto a una chiesa, sorge il minareto di una moschea, che fotografiamo. È come se quel luogo avesse aperto una fonte interiore su una dimensione intima trasversale a tutti i luoghi che desidero vedere e che, da oggi, mi troverò a visitare.

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Lo Stradun, a Dubrovnik

Il giorno dopo, passata una notte di conversazione e riposo in albergo, esploriamo la splendida città vecchia di Dubrovnik, con il suo corso centrale, lo Stradun, dal fascino quasi-leccese e dalle venature veneziane. Le sue chiese, i suoi vicoli e i loro gradini, con gli scorci mozzafiato che si aprono sul mare.
Mangiamo in un ristorante appena fuori dalla Porta di Pile, serviti da una cameriera che vince il mio Oscar personale alla femminilità. Se emigro, emigrerò qui.

Poi ripartiamo, sulle note degli Oasis e di Emerson, Lake & Palmer. Ci aspetta Spalato, dove ci imbarcheremo. Il viaggio è beatamente lento, tra gli spuntoni rocciosi fitti di alberi, in un territorio lunare costellato dalle isole costiere della Dalmazia. Poi l’autostrada ci teleguida fino a Split, con la sua mole edilizia diffusa come un immenso sprawl post-comunista.
Lasciamo l’auto al porto e ci dirigiamo al Palazzo di Diocleziano, eretto tra la fine del III e l’inizio del IV secolo e sede dell’imperatore-tetrarca dal 303 d.C. alla morte, avvenuta una decina d’anni dopo. Nei secoli, è stato progressivamente smozzicato, riconvertito ad altri usi e invaso dalle abitazioni, e oggi costituisce il centro storico della città, con la cattedrale (la più piccola del mondo) e monumenti vari.

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Una piazza di Spalato, nel Palazzo di Diocleziano

Inizia a diluviare. C’è un’atmosfera tranquilla, quasi dimessa. La città non è bella come Dubrovnik, ma conforta nella sua semplicità, con certe piazze che ricordano il ghetto di Venezia.
Ci mangiamo una pizza, poi un gelato servito da un gelataio che tifa Fiorentina, oltre che, naturalmente, Hajduk Split.
Lo stemma dell’un tempo forte squadra ex-jugoslava campeggia su un palazzo (o è lo stadio?), mentre la nave si allontana dal porto, regalando una zoomata al contrario su una nicchia di mondo che si spegne, aprendosi a una notte che si promette carica di sonno e di pace.

Qua sotto, gli autori del reportage:

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