Eppure quello di Roy Andersson resta uno sguardo eccentrico, fuori dalle righe. Accompagnato dalla volontà infinita di scatenare il ridicolo ovunque, meglio se è laddove normalmente di ridicolo c'è poco o nulla. E finché questo meccanismo è messo all'interno di sequenze veloci, abitate da soggetti strambi, che dalla quotidianità vengono risucchiati e uccisi, la cosa funziona benissimo, attirando e solleticando le risa oltre ogni previsione. Tutto cambia tuttavia quando, nel tentativo di voler alzare l'asticella, "A Pigeon Sat On a Branch Reflecting Existence" comincia a cucire un intreccio più esteso in cui pur continuando a scacciare ogni tipo di senso logico, non riesce a mantenere l'equilibrio ostentato all'inizio, imbarcando acqua a poco a poco e smorzando l'entusiasmo che era stato scaltro nel diffondere calmo. L'ambizione della pellicola affossa lentamente tutto il bene promesso nel primo quarto d'ora con l'aiuto di una monotonia e una comicità fine a se stessa, introdotta da una serie di personaggi e situazioni potenzialmente devastati, ma concretamente scarichi e a basso raggio.
E' troppo tardi allora quando Andersson si pone la fatidica domanda - attraverso uno dei due venditori - e si chiede se è giusto usare gli esseri umani solamente per il proprio divertimento? Lo è innanzitutto perché ammette un dubbio che quantomeno non avrebbe dovuto avere e poi perché il tempo a disposizione per risanare, ammesso che volesse farlo, ormai è scaduto. E il suo "A Pigeon Sat On a Branch Reflecting Existence" è crollato.
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