Già alle nove del mattino rimaniamo fermi in colonna, cercando di raggiungere il “sacro” suolo di Pontida. Circondati da uomini addobbati di corna, bandiere e talismani, e da donne col fiasco di vino rosso in borsa, capiamo che evidentemente questa gente ci crede davvero: nel luogo, nel movimento.
Appena entrati nel campo dove tutti attendono Bossi, l’aria che si respira è completamente schizofrenica: tutti si sono dimenticati di essere un partito di governo.
La gente è contro Roma, contro il centralismo, contro i furti perpetrati alle spalle della gente onesta del nord: esattamente come vent’anni fa. Peccato che ora a Roma i leghisti ci mangino, ci bevano, ci sguazzino. Peccato che, grazie ai voti della Lega, nel Parlamento romano siano passate le peggio cose del berlusconismo. Questo per cosa? Per lo pseudo federalismo che dicono di aver fatto passare?
Pagliacciate. E la gente lo sa. Non lo dice, certo: ma lo sa. E lo si capisce dalla parola “secessione”, urlata da ogni angolo della valle bergamasca. Non si inneggia più al federalismo, ci si è già sporcati abbastanza in nome di niente: chiedono di nuovo la separazione dall’Italia, invocano lo stato padano.
In attesa di Bossi, i leghisti vengono caricati a molla con il Va’ Pensiero sparato nel cielo, e con il discorso di William Wallace all’esercito sgarrupato degli scozzesi, decisi a sfidare la tirannia inglese per liberare il suolo dal nemico.
La parola “libertà” è il mantra della giornata: ma libertà da cosa? Da Roma? Quella stessa Roma che loro contribuiscono a ingrassare, di cui non fermano le vergogne, dalla quale imparano i meccanismi peggiori di gestione del potere, schifosi compromessi di governo e vergognoso nepotismo?
Che i leghisti vadano liberati da se stessi?
Peccato siano molto meno coraggiosi di quello che credono, questi ometti grotteschi vestiti di verde, che non hanno nemmeno il coraggio di sbugiardare i loro capi, quando sarebbe decisamente il caso.
Lo fanno a loro modo, facendo capire a suon di canti, slogan e grida, che con Berlusconi non vogliono più aver niente a che fare. Ma nulla di più.
Scippano riferimenti culturali (perché non hanno nessun appiglio intellettuale col quale legittimarsi), mangiano panini di sencond’ordine (nemmeno uno stand gastronomico decente), esibiscono una fauna volgare (con grezzo piacere), si sentono un popolo a parte (senza esserlo), s’ingrassano della convinzione di essere migliori (senza averne alcun motivo).
I dirigenti, dall’alto del palco, sanno che da soli non possono andare da nessuna parte, e allora cercano di mettere delle pezze, di indorare la pillola, di giocare all’insider trader, cercando di convincerci che il nemico è meglio combatterlo dall’interno (e soprassedendo sapientemente sui crimini comuni, perché non sempre una mano lava l’altra, ma spesso si sporcano insieme).
La mia Pontida è stata un’esperienza borderline: realtà e sogno, accostati in modo bugiardo; popolo e rappresentanti, separati in casa, col sorriso ipocrita sulle labbra e una menzogna fissata con chiodi arrugginiti alla punta della lingua.
È stato bello anche scoprire che per la Lega i lavoratori dipendenti non esistono. Agricoltori, artigiani, piccoli imprenditori: le parole, le promesse e le lotte erano tutte per loro. Il mondo del popolo lavoratore leghista è tutto qui.
Decisamente troppo piccolo per prendersi la pena di considerare la Lega un’ipotesi politica lontanamente plausibile, anche turandosi il naso su tutto il resto. Tutto il resto (il detto e il dichiarato) ve lo stanno già raccontando i giornalisti.
Magazine Per Lei
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