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A proposito dello scartare

Da Marcofre

“Quello che ho scartato del libro [Il grande Gatsby], da un punto di vista sia materiale che psicologico, basterebbe per fare un altro romanzo!”

Se si legge “Il grande Gatsby”, e in seguito questa frase, si fa fatica a crederci. Eppure è davvero così. Un autore deve essere pronto a scartare tanto, tantissimo. Anche cancellare rappresenta un processo importante, che ha a che fare con l’arte: se c’è il talento, è nell’eliminazione che si gioca tutto.

Qualcuno potrebbe osservare che il tono di Scott Fitzgerald intende suggerire che si tratta comunque di materiale di qualità. Infatti parla di un altro romanzo. È dunque possibile che parte di ciò che è stato scartato sia stato utilizzato in seguito in altre opere.
Il punto però è un altro.

Credo di aver già scritto in passato che un autore deve avere per quello che scrive un atteggiamento ambivalente.

Da una parte grande rispetto per il personaggio, e dall’altra la determinazione che lo guida e perciò sa che la storia ha la precedenza su tutto.

Spesso ci si affeziona alle parole, a interi dialoghi o capitoli. Sono costati fatica, impegno, ma questo fa parte del prezzo da pagare, quindi non deve sorprendere la sua presenza. Ma siccome è la parola che importa, è a lei che si deve guardare, non a noi oppure al nostro egocentrismo.

D’accordo, diciamo pure che questo è tutto vero e esatto. Però come tagliare? Cosa lasciare? Esiste un metodo, un criterio che, per quanto arbitrario, aiuti a sbrogliare la matassa di questo problema?

Mica facile rispondere. Credo però che si debba essere brutali. Taglia e buonanotte. Non è una risposta decente?

Vero, ma solo se ascolti te stesso, invece della storia. Di solito l’esordiente scrive per celebrare se stesso, e basta. Quindi non ha tempo da perdere, non vuole e nemmeno può ascoltare la storia. È lui e solo lui il protagonista dello scritto, e basta.

Se al contrario chi scribacchia ha un po’ di buonsenso (non parlo di talento, sempre indispensabile, ma di una qualità spesso troppo sottovalutata), riesce anche a valutare quello che è superfluo e quello che invece si dimostra valido. Il talento d’altra parte deve misurarsi con la disciplina, non basta certo esseri bravi per ottenere qualcosa di valido.

Però ripeto: qui si parla di scartare. Non si tratta di gettare via materiale di mediocre qualità. Magari è buono, però ogni storia ha una sua economia, e spesso occorre rispettare questa economia. Non si tratta di risparmiare le cartucce per la prossima storia. Quando si scrive, non bisogna mai risparmiarsi, ma affrontare la pagina come se fosse l’ultima. Anche qui allora, esiste il criterio? Perché un capitolo deve essere sacrificato? Per quale ragione l’economia della storia desidera l’amputazione di ciò che è buono?

Le possibili risposte hanno a che fare con il progetto che un autore ha elaborato. Spesso ci si rende conto che una parte sulla quale si lavora è interessante, così come il suo sviluppo; ma si allontana troppo dal cuore della storia. Introduce elementi che rischiano di distrarre non solo il lettore, ma soprattutto l’autore.

Soprattutto in un romanzo, spesso ci si trova alle prese con diramazioni interessanti, che ci conducono in scenari inediti. Il racconto in questo è più severo, benché non sia immune da tali rischi. Una storia che però si sviluppa per duecento o trecento pagine offre maggiori tentazioni. Perciò si imbocca una strada e solo dopo molto tempo si comprende che non si innesta con il progetto che si porta avanti. A volte, è l’editor che viene in aiuto, e scopre che c’è roba di qualità, ma che si muove nello scenario sbagliato.

Ma anche in un caso del genere, l’autore intuisce che esiste qualcosa che merita altri spazi. E scarta. E lo fa sempre per il benessere della storia, non del suo.


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