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A proposito di Kafka. Intervista alla prof.ssa Barbara Di Noi

Creato il 23 gennaio 2012 da Sulromanzo

Il processoIn una serata affollata del circolo letterario fiorentino la professoressa Barbara Di Noi, germanista, già docente nelle università di Pisa e Firenze, ha parlato di Franz Kafka, uomo e scrittore.
Professoressa Di Noi, nei suoi due ultimi libri dedicati a Kafka («In verità non so nemmeno raccontare...» Memoria e oblio nella narrativa di Franz Kafka, Biblion 2009 e Discorso sulla lingua yiddish. I guardiani della cripta, Biblion 2011), viene studiato quel profondo e complicato rapporto tra vita e scrittura che accompagnò Kafka per tutta la vita. Si può parlare nel caso di Kafka di scrittura come sofferenza?
Per Kafka la scrittura era una tortura. Era nel contempo la colpa di cui si era macchiato nei confronti dell'etica, intesa come obbligo di fondare una famiglia e di radicarsi nella comunità, ma al tempo stesso era la scrittura medesima a configurarsi ai suoi occhi come il Tribunale dinanzi al quale legittimare la propria esistenza di esteta. Sotto quest'aspetto è innegabile la profonda influenza di Kierkegaard. Ma più che di un'influenza di tipo meccanico, bisognerà pensare a una profonda affinità destinale, di una consonanza. Senza dimenticare che Kafka possiede pur sempre l'ingenuità e la forza plastica dell'artista, mentre Kierkegaard no. In Kafka vita reale e scrittura si pongono in un rapporto di reciproca interruzione, che assume i tratti di una peculiare dialettica in virtù della quale la scrittura si nutre della vita dello scrittore - o meglio, un po' come nel concetto di Erlebnis rielaborato da Benjamin alla luce di Proust, della vita non vissuta, delle esistenze altrui e delle occasioni mancate. Ma, di nuovo, la scrittura, per poter continuare indisturbata e incontrollata la propria cavalcata solitaria, deve porsi al riparo della vita presente, che in ogni momento può influire sulla rappresentazione e scompaginarne i contorni. È come se vita e scrittura, pur dipendendo l'una dall'altra (di cos'altro ha mai scritto Kafka, se non con un'ostinazione maniacale, di se stesso?) come preda e cacciatore fuggono l'una dall'altra. Non per niente proprio il motivo della caccia è uno dei più ricorrenti nello scrittore praghese.
Cosa pensa dell'interpretazione sociologica di Kafka, l'individuo in lotta perenne contro la burocrazia opprimente in una società sovrastata da un apparato fine a se stesso?
Non sono molto d'accordo. Kafka è insidioso per il lettore, proprio perché il suo vuoto di determinazione - che non va disgiunto dalla massima precisione di una lingua addirittura tagliente - attira il lettore in un gioco di specchi e di immedesimazioni. Per interpretare Kafka è sempre necessario prendere le distanze, lasciare il testo in der Schwebe, in uno stato di perenne oscillazione, altrimenti si rischiano delle cantonate madornali: vedi le letture a senso unico che si sono susseguite, esistenzialismo, lettura marxista, lettura ebraico-sionista, ecc. Tutti possono trovarci dentro quello che fin dall'inizio si sono messi in testa di trovarci. Credo che un modo corretto di leggere Kafka sia quello di prestare attenzione al problema della psicologia e della percezione.
Cosa si può dire del metodo di lavoro di Kafka, del tempo da lui dedicato alla scrittura?
La vena creativa era molto rara in lui. La sua scrittura era una faticosa ricerca interiore che gli faceva perdere il contatto con la realtà. Nei diari e nelle lettere parla spesso della difficoltà di trovare Zusammenklang, un particolare e raro stato di armonia che gli faceva perdere qualsiasi legame con il mondo dei vivi. La scrittura è una ricerca di verità per Kafka. Ma questa ricerca deve passare attraverso la cancellazione dell'Io. È come un cerchio che si restringe di continuo intorno allo scrittore. Alla fine sarà necessario accertarsi, via via che lo spazio si è ridotto, di non essere andati a nascondersi da qualche parte. In questo senso, scrivere è uno svelare continuo. Un procedere con severità negandosi ogni possibilità di nascondersi. In particolare Kafka ha parlato di due compiti prima dell'inizio della vita: restringere sempre di più il primo cerchio e andare a vedere se non ci si è nascosti da qualche parte. A livello visivo questo si traduce nell'azione di guardare senza però fissare davvero l'oggetto dell'osservazione.
Nei suoi due saggi si fa spesso riferimento alla problematica del tempo interiore. È corretto affermare un'influenza diretta delle letture di Bergson e Kierkegaard?
Sicuramente in Kafka c'è il tema della memoria, vista però dalla prospettiva rovesciata, che è quella dell'oblìo. Per Kafka la memoria è oblìo organizzato. Kierkegaard scriveva che ricordare in modo poetico equivale a dimenticare di aver dimenticato. A Bergson lo accomuna l'intuizione, quasi einsteiniana, che non è possibile ricordare da un ipotetico punto d'Archimede, da un punto immobile collocato fuori dallo spazio e dal tempo. Il tempo in cui si colloca il rimuginatore, il rammemoratore, è sempre un punto mobile, soggetto al fluire del tempo esso stesso, per cui il presente dell'anamnesi non può che influire sulla cosa che si ricorda. Per Kafka è il presente che determina il ricordo. Il passato viene legittimato alla luce del presente, anzi del futuro. Come in Benjamin, il passato non poteva che essere così, perché una determinata generazione potesse venirne fuori come da una forma in cavo (Passagenwerk).
Franz KafkaProust e Kafka. Nel suo libro In verità non so nemmeno raccontare c'è un interessante confronto tra i due scrittori a proposito della memoria involontaria.
Entrambi diffidano della memoria conscia e volontaria. La differenza fondamentale mi sembra possa essere ravvisata nell'importanza che Proust attribuisce al caso; la possibilità che noi, nel corso della nostra vita, ci imbattiamo o meno nell'oggetto in grado di far riaffiorare l'immagine inconscia del passato, quella che ci è stata interdetta dalle maglie della mémoire volontaire dipende per Proust solo dal caso. Kafka lascia agire il caso all'interno dell'allegoria, lascia che esso sovrintenda al rapporto tra le sue componenti, ma lo esclude dal momento preliminare dell'impianto concettuale su cui si poggia. Per Kafka la madeleine, l'oggetto in grado di far risorgere i ricordi persi sotto la coltre della coscienza, non esiste. Siamo sempre davanti al richiamo dell'infanzia, ma affinché il “colpo” riesca dobbiamo ignorare il bersaglio. È necessario perdersi nel labirinto delle combinazioni allegoriche e lasciare che il caso diventi necessità.
A proposito di queste combinazioni, leggendo Kafka si riceve una particolare suggestione che ha il sapore della magia.
È la conseguenza di una scrittura che procede seguendo una dimensione costellativa dell'indagine interiore, non riconducibile a un percorso diretto, univoco. In un frammento diaristico del 1921 egli annota che forse «lo splendore della vita si trova dispiegato dinanzi a ognuno e in ogni momento in tutta la sua magnificenza, ma nascosto, in profondità, invisibile, molto lontano. Ma si trova lì, non ostile, non recalcitrante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, col nome giusto, allora viene. Questa è l'essenza della magia, che non crea, ma chiama».
Più volte nel suo libro la scrittura di Kafka viene indicata come un esempio fondamentale del passaggio da una narrazione lineare, di tipo naturalistico, ad una narrazione di tipo cinematografico. Può farci un esempio?
Alcuni studiosi hanno rilevato una possibile influenza o comunque una sorprendente coincidenza, tra la tecnica narrativa di Kafka, sperimentata già nella scena del fochista nel primo capitolo di America e il procedimento cinematografico del montaggio parallelo, sperimentato dall'americano Griffith già nel 1909 nel film The Lonely Villa. Come nella sequenza kafkiana si alternano descrizioni del mondo esterno – la distesa del mare con le navi ondeggianti e le bandiere lacere, colta da Karl dall'oblò – e l'azione che si svolge all'interno, allo stesso modo Griffith era riuscito a fondere sequenze sceniche di un tumulto rivoluzionario colte da diversi punti di vista in un continuum visivo, cui il cambiamento dell'angolo di visuale conferiva articolazione ritmica.
Molte grazie, professoressa Di Noi, per l'attenzione che ha voluto dedicare ai lettori di Sul Romanzo.

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