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A proposito di ortografia e parafanghi

Da Marcofre

Quanto a ortografia sono sempre stata una frana.

A dichiarare questo è nientemeno che Flannery O’Connor, esatto, proprio lei. La lettura del libro “Sola a presidiare la fortezza” svela anche questo:

 Sicché il parafango non è quella cosa che sta sul davanti?

 

Molti a questo punto potrebbero sentirsi rinfrancati dal leggere queste affermazioni: quella faccenda di curare il testo altrimenti non si viene pubblicati, è una bubbola. Se una delle massime scrittrici statunitensi nemmeno conosceva il parafango, e dichiara che l’ortografia era il suo tallone d’Achille, allora un bel: “Ma però è più meglio” non farà male a nessuno! Tanto c’è l’editor!

Proverei a mettere da parte gli entusiasmi e le battute, e ragionare; un esercizio poco praticato di questi tempi, ma non importa.
Buona parte delle opere degli scrittori celebrati, sono imperfette. Di solito questo accade(va) perché la figura di un editor non esisteva, e ha iniziato a esistere nel Novecento (almeno credo).

Prima, gente del calibro di Tolstoj o Dostoevskij si rivolgevano o alla moglie (il primo), oppure al circolo Belinskij (il secondo, leggendo loro “Il sosia”). Non era esattamente un’operazione di editing che scaturiva, quanto piuttosto una sorta di scambio di vedute su quanto si scriveva.
L’editing di solito appariva (senza che nessuno o quasi se ne rendesse conto), quando l’opera veniva tradotta in un’altra lingua.

In parte perché una frase “musicale” in russo, non lo è in italiano, e allora bisogna inventarsi qualcosa perché anche il lettore italiano abbia una pallida idea di come scrive l’autore. Non sempre è possibile però. In parte perché sì, l’autore sbaglia: è ripetitivo. Mi pare di averlo già scritto in passato: Tolstoj quando deve introdurre il discorso di un suo personaggio ricorre a “Disse”. Il traduttore ha cura di cambiare un po’ le cose, di variare i verbi. Lo raccontava Nabokov, a proposito della traduzione in francese di Anna Karenina.

Qui si rischia di perdere di vista il cuore della faccenda. Per scrivere non è necessario possedere lauree, ma talento. Questo può assumere, cammin facendo, robustezza e profondità, e lasciarsi alle spalle sbavature e imperfezioni.
Piaccia o no, è lui che fa la differenza: il talento. Senza non ci sono che chiacchiere, magari in forma perfetta, senza errori. Ma pur sempre chiacchiere.

Il talento ha questo potere: è in grado di schiacciare in un angolo certe debolezze della scrittura. Ho scritto “certe” non “tutte”; proprio perché qualche errore può esserci e allora rimedia l’editor. La macchina della narrazione deve muoversi, dimostrare di avere una destinazione e di conoscere l’itinerario per raggiungerla. Oltre al carburante e a una discreta perizia nella guida. Magari succederà che in una curva invada la corsia opposta, o che non rispetti i limiti di velocità.

La scrittura è un cammino, come ripeto di frequente. E bisogna dimostrare di sapersi muovere sulle gambe senza troppi aiuti, e anche di saper correre e di fermarsi al momento giusto. Non che questo colpisca per davvero gli editori, lo riconosco. Ma per come la vedo io: se si usano le debolezze di un autore (tra l’altro “celate” dietro le quinte) per giustificare le proprie, non c’è dubbio alcuno.
Manca il talento, manca tutto.


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