A quando l'appuntamento?

Le primarie si vincono e si perdono e non c'è alcun motivo di stare a drammatizzare. Magari potremmo non prendere in considerazione il modello Rieti, ma se il Pd – primo partito del centrosinistra – non riesce a piazzare un proprio candidato in città chiave quali Milano, Napoli, Cagliari e Genova, una riflessione è almeno concessa. Senza drammatizzare, appunto. I grandi partiti sembrano non comprendere che messi dinanzi ad una scelta di nomi, la gente è sempre più propensa a mettere un segno sul volto “nuovo”. Che poi non è “nuovo” il termine esatto, sarebbe più appropriato definirlo di rottura. Se alle primarie di coalizione si accetta la partecipazione di più candidati dello stesso partito, poi se ne devono accettare anche gli esiti (come giustamente ha osservato Bersani). Ma se le doppie o le triple candidature derivano piuttosto da rese dei conti intestine, allora la competizione si fa perversa. Gli elettori lo capiscono, non sono rincitrulliti come talvolta si pensa. E così votano Pisapia, De Magistrs, Zedda, Doria (e va benissimo, ci mancherebbe altro). Che all'interno del Pd coesistano diverse anime è un valore aggiunto e in questo senso le primarie sono la più bella innovazione introdotta dai democrat. Risultano invece meno opportune agli occhi dei sostenitori le avversità senza se e senza ma, prive del minimo confronto. Se non si è amici si è necessariamente nemici. Un atteggiamento che è stato reso evidente inoltre dalla dialettica attorno alla riforma del mercato del lavoro, talvolta della legge elettorale e del ruolo dello stesso Pd in Europa (con Fassina, Orfini e Orlando che lo vorrebbero più allineato al Pse scontentando l'apparato cattolico). Un partito multipensiero (grazie al cielo!) a un certo punto deve anche saper trovare la compattezza, fondersi cioè in una sintesi delle diverse anime che lo compongono. A quando l'appuntamento?