A rivista anarchica. Numero speciale.
Di Nadia Agustoni
[ Con un articolo di Paolo Finzi su una singolare figura dell'anarchismo.]
Copertina bianca con il personaggio di Anarchik che in una vignetta dice: “ Ehi! Sono passati quarant’anni!”, così il numero speciale di “A rivista anarchica”, 258 pagine 10 euro, festeggia un compleanno importante. E’ passata molta politica da queste parti, cultura (libri, musica, interviste, rubriche, dibattiti) e sempre rinnovata la presenza “dell’utopia”, del pensare un mondo diverso e un fare concreto, con progetti che hanno toccano i campi dell’editoria, delle comunità, dell’attivarsi nei quartieri e tra i rom e gli ultimi della società. Da pagina 121 a pagina 210 tutte le foto delle copertine: dal n 1, che ricorda un po’ i vecchi volantini e il ciclostile e quindi il n.2 con il volto di Pietro Valpreda e con la storia che ci viene incontro. Continuando troviamo altri pezzi di passato: “ Gli anarchici non archiviano. 1969/1979” e siamo al gennaio 1980, l’inizio di un decennio di rimozioni, di sfaldamenti e di fughe in avanti e indietro…
Molti collaboratori della rivista hanno scritto un pezzo apposito (c’è anche la sottoscritta), e niente appare più importante o meno importante: è un insieme che si compone sotto gli occhi e tutto conta perché tutto ha contato; dal sindacalismo libertario all’antimilitarismo, dalle donne agli uomini, dal femminismo all’ecologia sociale. Su “A rivista” sono apparsi scritti di Colin Ward, Murray Bookchin, Alex Comfort, e molti inserti speciali sono stati dedicati ai classici del pensiero anarchico come a questioni attuali. I cd di De Andrè, con inediti, e il cofanetto “ A forza di essere vento” sullo sterminio degli zingari, sono alcune delle altre realizzazioni della rivista, fatte con la cura che sempre contraddistingue il lavoro della redazione e del direttore Paolo Finzi.
Dori Ghezzi nel suo breve intervento dice una cosa importante: “ Fino a un certo punto della mia vita, per me il concetto di anarchia è stato una versione distorta rispetto a ciò che l’anarchia è nella sua vera essenza; e credo che questo possa capitare alla maggior parte delle persone condizionate da un’informazione che troppo spesso usa a sproposito la parola anarchia. La presa di coscienza di che cosa significasse è maturata conoscendo da vicino chi si dichiarava anarchico con consapevolezza e onestà.”
A rivista anarchica, numero speciale 358, 10 euro.
La diffusione del numero avverrà anche in due serate che la redazione sta organizzando:
c/o Circolo Arci “La Scighera” a Milano giovedì 24 febbraio 2011 e ancora da definire riguardo la località a fine maggio/inizio giungo in Emilia Romagna. Per informazioni scrivere a [email protected]
Propongo di seguito l’intervento di Paolo Finzi “Quell’edicola che non c’è più”.
(Franco Pasello)
Quell’edicola che non c’ è più. Di Paolo Finzi
Nella terza di copertina di ogni numero di “A” c’è l’elenco dei nostri punti-vendita. Fino allo scorso numero, a Milano, accanto a librerie, qualche edicola, centri sociali, ecc. c’era anche questa curiosa indicazione: vendita diretta davanti alla Stazione Nord (p.le Cadorna) tutti i mercoledì dalle 17 alle 19. Se andavi lì, nel luogo e nell’orario indicati, trovavi lui, Franco Pasello, in piedi, di fronte all’entrata più affollata della stazione, proprio nell’ora di punta del rientro. In mano Umanità Nova, “A”, magari Sicilia Libertaria, e appoggiati per terra o nella borsa (per evitare grane con i vigili o i poliziotti), alcuni libri – magari proprio quello ordinatogli la settimana prima da quello studente residente nel Varesotto e da quel professionista, tutto elegante, che faceva il pendolare da Como. Franco era un’edicola umana, o – se preferite – un uomo/edicola.
Con regolarità, da decenni, presidiava quel luogo in quell’ora. Così come aveva fatto per più di vent’anni, il sabato (prima per tutta la giornata, poi – sai, è dura andarci direttamente dal lavoro dopo la nottata del venerdì, quando si fa il pane triplo – solo al pomeriggio) alla Fiera di Sinigaglia, il mercato delle pulci milanese. Per tanti anni da solo, poi insieme con Lillino e Patrizio, poi di nuovo da solo.
Era mitico Franco, aveva un’innata capacità di vendita, era la gioia di noi editori. In realtà il trucco c’era, quel ragazzone che con il passare degli anni diventava più vecchio restando sempre un ragazzone, investiva molto di sè in quell’attività apparentemente commerciale. Sembrava che vendesse, in realtà cercava l’occasione per parlare, per spiegare le nostre idee, per dire e ascoltare commenti sull’attualità, per “cuccare” o almeno cercare di farlo con le ragazze. Era solido come un’edicola vera, te lo ritrovavi lì con la pioggia e il gelo (che a Milano non mancano, con un inverno che può andare da ottobre a marzo), sempre con la sua chiacchiera, il suo sorriso, la sua comunicativa. Quando me lo ritrovavo al fianco in qualche corteo, si divertiva sempre a fare il confronto con la mia incapacità: io vendevo per venti euro, lui per settanta, più un abbonamento, più il cellulare di una ragazza, più il volantino della cena vegana dato a due di Mortara, ecc.. A volte mi sembrava anche eccessivo, al limite dell’insistenza.
Franco non era amico dei Rom, era un Rom. Non a caso solo nei campi regolari e irregolari lui si sentiva del tutto a casa propria. Più ancora che in redazione, dove in media è venuto almeno una volta alla settimana per 35 anni – e, d’estate, quando non andava in ferie, ti si piazzava qui con la chiacchiera, ed era un problema (e solo qualche Franco ne parliamo la prossima volta, se no non riusciamo a fare la rivista nuova e ti tocca continuare a vendere quella vecchia lo faceva desistere).
I suoi amici Rom (qualcuno anche amico mio) non gli rompevano, come noi a volte facevamo, con l’invito a curarsi i denti, a lavare più spesso i suoi vestiti, a darsi una regolata. Nei campi era amato, faceva foto a tutti, ma soprattutto parlava, stava ad ascoltare, cercava di capire quel mondo così diverso dal nostro. Dal nostro? Che dico: certo Franco, persona di grande sensibilità umana, di attente letture, di fini ragionamenti, partecipava anche al nostro mondo anarchico, ma la componente Rom è andata assumendo sempre maggiore peso nella sua vita. E lui, single certo non per scelta, ha sempre trovato nella grande famiglia allargata degli zingari, dei giostrai, dei Sinti la propria famiglia: quella famiglia che non ha mai avuto, da piccolo, e che non si è creato da grande (e chi lo conosce sa quanto ciò gli pesasse).
E allora ti snocciolava le parentele, i Braidic, i matrimoni incrociati, le detenzioni (tante) e le scarcerazioni (poche), e le fuitine delle ragazze, i raid nei campi delle forze dell’ordine. E poi comprava e divorava tutto quanto c’era sui Rom, la loro storia.
Aveva una forte etica del lavoro. Non saltava mai un turno di notte, aveva un’intima coscienza del valore sociale del panificare.
Non era un “talebano”. Convintissimo delle idee anarchiche, dedito come pochi altri alla loro diffusione, aveva una mentalità aperta, frequentava anarchici di tutti i tipi, da quelli dei centri studi agli insurrezionalisti, attento a capire ma fermo nei propri convincimenti. Bazzicava i vegani e mangiava carne, era di fondo un individualista ma non si applicava etichette e non considerava quelle altrui dei filtri per l’amicizia o la collaborazione. Era critico verso le forme che gli apparivano troppo organizzate nel movimento anarchico, ma (per esempio) aveva tanti amici nella FAI (di cui non avrebbe mai fatto parte) e ne vendeva il settimanale anche se spesso non ne condivideva il taglio o alcune cose: era troppo libertario e serio per farsi condizionare, nella sua attività di venditore, da giudizi personali e contingenti. In questo, era più serio e affidabile di altri che, pur parlando di militanza e di organizzazione, introducono motivi polemici ad ogni piè sospinto.
Era molto sensibile, anche troppo – se esiste il troppo. E per una sua vicenda personale, che aveva a che fare con amore, paternità e altre cose di grande rilievo personale, perse quasi la testa e arrivammo a litigare di brutto. Per tanto tempo ridusse di molto la sua frequentazione della redazione e si ritrovò “contro”, fortemente critici, tanti compagni e amici. Fu un periodo orribile per lui, per altri e altre, per noi.
Capii in quei mesi, lunghi mesi, che cosa significhi “sangue del mio sangue”. Scientificamente Franco non era sangue del mio sangue, ma di fatto è come se lo fosse: non fui capace di rompere con lui – di litigare sì, e tanto – per quante stronzate potesse fare (e ne fece, quante ne fece in quel periodo). Era come un mio fratello minore, o forse Aurora e io eravamo per lui figure un po’ genitoriali – ed io in particolare, forse, in parte, quel padre che non ebbe mai e che ancora non tanto tempo prima di morire era andato a cercare a Lendinara, il paese del Rodigino in cui era nato 56 anni fa. Risultato: una volta saputo chi era, il padre lo cacciò, intimandogli di non farsi più vedere, se no avrebbe chiamato i carabinieri. Quanta sofferenza nel suo racconto di questo viaggio nella terra natia!
Ne aveva vissute di cose forti, Franco. Come quella notte di una quindicina di anni fa’, quando si era ritrovato, come sempre, nel cuore della notte, solo con il panettiere per cui lavorava. Per una tragica fatalità, il suo “padrone” letteralmente perse la testa, risucchiata e maciullata negli ingranaggi di un macchinario. E da solo con quel cadavere decapitato e sanguinante, Franco aveva dovuto avvisarne la moglie, che abitava nello stesso stabile, finendo – Franco – all’ospedale sotto shock. E da qui aveva chiamato Fausta, della redazione di “A”. Noi, la sua famiglia.
Tante immagini si affollano nella mente: la campagna per Monica Giorgi, Senzapatria, il periodo della sua appartenenza al gruppo Anarres (l’unica sua “appartenenza” che io ricordi), le sue critiche a tante cose che abbiamo pubblicato, la sua passione per la bici (rigorosamente l’unico suo mezzo di trasporto), la sua essenzialità nel vivere, con tirchierie e generosità.
Tra tante immagini, spicca la nostra prima volta. Era il 1976, ero in corrispondenza con lui, giovane detenuto per rifiuto del servizio militare. Si era fatto vivo prima dal carcere militare di Gaeta, poi da quello civile (si fa per dire!) di Sondrio, per chiedere l’invio della rivista e di alcuni libri. Poi uscì e ci scrisse. Abitava non distante dalla redazione, ma non venne a trovarci. Insistetti e alla fine venne, era imbarazzatissimo, non spiccicava una parola, ma ci fece subito simpatia. Tornò, lo intervistai. Poi ci fece conoscere sua madre, fummo invitati a pranzo. Il ghiaccio era rotto. Ora tutto questo appartiene al passato.
Franco è morto, un ictus a casa sua, mentre due Rom che lui aiutava da tempo (me ne aveva parlato) erano probabilmente passati a lavarsi i vestiti e a bere un caffè. Quei due Rom rumeni, che dormono in un’auto, non troveranno nessun altro gagio (come i Rom e i Sinti definiscono i non-appartenenti al loro popolo) che apra loro le porte della propria casa e della propria vita, come faceva con naturalezza Franco. Una cosa che nessuno di noi, pur grandi teorici della solidarietà e bla bla bla, farebbe mai. E che lui, invece, faceva. Concretamente.
Ma anche qui il trucco c’era. Franco smettila di imbrogliarci. Ora che sei morto, lasciaci dire la verità: tu non sei mai stato un gagio. E i tuoi fratelli Rom, i soliti imbroglioni, lo sapevano o almeno lo percepivano.