di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
Quando si tenta di fare critica scientifica al neo-darwinismo è difficile, se non impossibile, evitare l’accusa di sostenere tout court il creazionismo (in forma più o meno camuffata) e quindi di porsi al di fuori del discorso scientifico. Nel migliore dei casi, può capitare di sentirsi dire qualcosa del genere: “Va bene la critica, ma se ci si limita a quella e non si propone un’alternativa valida… la critica rimane scientificamente lettera morta e l’alternativa alla teoria neo-darwiniana coincide, di fatto, con il creazionismo”. In realtà, questo tipo di osservazione (quando è espressa in buona fede) ha senso, se si pensa a come la critica al neo-darwinismo sia effettivamente usata da certe organizzazioni per sostenere posizioni religiose fondamentaliste, decisamente anti-scientifiche. Sennonché, alle volte ci si dimentica – o si finge di dimenticare – che non tutti i dissidenti dal neo-darwinismo sono pastori protestanti della Bible belt statunitense.
Prima di proseguire nel discorso, conviene fermarci brevemente per richiamare alcuni concetti. Innanzitutto, è chiaro che l’evoluzione (intesa come cambiamento nel tempo della struttura e della composizione della biosfera terrestre) è un fatto scientifico innegabile, suffragato da innumerevoli prove. Di norma, si usa distinguere tra macro‑evoluzione e micro‑evoluzione. Con il termine macro‑evoluzione si indica la comparsa nella biosfera di nuove funzioni, organi e gruppi tassonomici; la micro‑evoluzione si identifica invece di solito con la variabilità intra-specie (che include l’apparizione di nuove varietà o sotto-specie), ma più in generale comprende tutti i fenomeni che implicano la specializzazione o la perdita di funzioni attraverso piccole variazioni ereditabili. Per esempio, l’evoluzione dell’occhio e la comparsa dei cordati, dei tetrapodi (i vertebrati terrestri) e degli euteri (i mammiferi placentati) costituiscono tutti casi di macro‑evoluzione. D’altro canto, la separazione del cane (Canis lupus familiaris) dal lupo (Canis lupus lupus) è una faccenda puramente micro‑evolutiva.
Per quanto riguarda le evidenze scientifiche dell’evoluzione, quelle della macro-evoluzione sono esclusivamente paleontologiche; per la micro‑evoluzione, invece, esistono moltissime osservazioni “in vitro”, oltre a quelle classiche “in vivo” (come il famoso caso della Biston betularia). Tra le prove di laboratorio va ricordato, in particolare, lo storico esperimento sui batteri di Lenski, che è una splendida dimostrazione di adattamento micro-evolutivo (dovuto, nello specifico, alla perdita di una particolare funzione enzimatica). Senza entrare nel dettaglio, ricordiamo che il neo-darwinismo (per meglio dire, la “Sintesi Moderna dell’evoluzione”) è quella particolare interpretazione scientifica dei fenomeni evolutivi per cui la macro‑evoluzione non differisce sostanzialmente dalla micro‑evoluzione. In altri termini, secondo la teoria neo-darwiniana dell’evoluzione gli eventi macro-evolutivi sono dovuti al lento accumularsi – nel corso di ere geologiche – di una lunga serie di cambiamenti micro-evolutivi. Niente di più, niente di meno.
Ora, il punto è questo: la Sintesi Moderna (figlia, come è noto, della teoria originaria della selezione naturale di Darwin e della genetica, sviluppata intorno alla metà del XX secolo) è in grado di spiegare in modo pienamente soddisfacente la micro‑evoluzione. Per fare ciò, non richiede di andare oltre la semplice interpretazione dei fenomeni biologici fornita dalla fisica e dalla chimica della fine del XIX secolo, di impianto tipicamente riduzionistico. Purtroppo, però, la spiegazione della macro‑evoluzione non si può affatto considerare una conseguenza immediata di tale teoria: è richiesto, per così dire, un supplemento interpretativo, un fondamento filosofico che assicuri che l’approccio riduzionistico sia davvero in grado di giustificare ogni aspetto della realtà scientificamente esplorabile. Tale fondamento (totalmente filosofico, perché non suffragato da nessuna prova scientifica) è perfettamente stigmatizzato nell’opera più nota di Jacques Monod, “Il Caso e la Necessità”.
Caso (o politica, o chissà cos’altro) volle che nel corso del XX secolo il neo-darwinismo – vale a dire la rappresentazione monodiana dell’evoluzione – diventasse dominante tra gli specialisti del campo, assurgendo al rango di dogma indiscutibile. Questo nonostante le sempre più schiaccianti evidenze del fatto che un’interpretazione riduzionistica non basti a render conto di tutti gli aspetti della realtà materiale: evidenze provenienti dalla meccanica quantistica e dalla fisica dei sistemi complessi, ma anche dalla stessa biologia. È ormai assodato, per esempio, che la relazione tra genotipo e fenotipo di un organismo (vale a dire, tra l’informazione genetica e la sua espressione nel vivente) è di carattere altamente non lineare: le piccole variazioni fenotipiche caratteristiche della micro‑evoluzione coinvolgono di norma aree del genoma distanti eppure fortemente interdipendenti, mentre le mutazioni genotipiche puntiformi risultano neutre dal punto di vista macro-evolutivo o hanno effetti distruttivi sull’individuo. Secondo il premio Nobel Barbara McClintock il genoma è un organello reattivo che può essere spinto alla riorganizzazione da qualche “shock”, portando alla comparsa di nuovi gruppi tassonomici: dunque, il DNA non andrebbe più considerato come il semplice portatore passivo di informazione del dogma monodiano – lentamente mutante nel tempo per effetto di piccole variazioni casuali – ma come un sistema complesso, capace di reagire in modo non lineare a sollecitazioni esterne. Inoltre, è ormai dimostrato che uno dei motori più importanti nei fenomeni evolutivi non è la mutazione genetica casuale, ma il trasferimento orizzontale di geni tra individui di una data popolazione. Tutto ciò è difficile da spiegare nella prospettiva strettamente riduzionistica del neo-darwinismo di stampo monodiano; ed è per questo che sono esistiti ed esistono scienziati che, pur essendo lontanissimi da idee creazioniste, lo hanno giudicato errato: Goldschmidt, Schindewolf, De Vries, Løvtrup, Croizat, Lima-de-Faria (per citarne solo alcuni).
Insomma, non sempre la critica al neo-darwinismo è da intendersi come strumentale a qualche sconsiderata teologia fondamentalista (così come il neo-darwinismo stesso, in quanto teoria scientifica, non dovrebbe essere strumentale a qualche altrettanto sconsiderata, e altrettanto fondamentalista, ateologia). D’altra parte, fin dalle origini il darwinismo si è cautelato da ogni tentativo di falsificazione scientifica. Il suo fondatore ebbe infatti a dichiarare: «Se si potesse dimostrare che esista un qualsiasi organo complesso, che non possa essere stato prodotto in alcun modo mediante molte piccole modificazioni successive, la mia teoria sarebbe completamente rovesciata. Ma io non riesco a trovare nessun caso del genere» (tratto dal capitolo VI de “L’origine delle specie”). In pratica, Darwin stabilì che per confermare la validità della sua teoria nella spiegazione di una data problematica evolutiva, sarebbe bastato escogitare una plausibile storia di adattamento e selezione naturale – non importa quanto improbabile, non importa se non verificabile. Pertanto, nonostante le pressioni provenienti da ogni area della scienza, è perfettamente possibile continuare ad avere fede nella Sintesi Moderna, a patto di riuscire a trovare una spiegazione riduzionistica, una narrazione selezionista darwiniana – una just-so story, insomma – che dia conto dello specifico fenomeno biologico esaminato. Il fatto è che questo è sempre possibile: considerata l’universalità del codice genetico nella biosfera terrestre, si può sempre immaginare che si sia verificata, a un certo punto nel remoto passato, un’opportuna mutazione genetica, seguita da una determinata successione di selezioni e adattamenti micro-evolutivi che hanno prodotto l’effetto osservato!
C’è un piccolo particolare, però: ogni nuova just-so story introduce un elemento sempre più pesante di fortuna nella narrazione della storia della vita. In altre parole, nella prospettiva darwiniana le cose sarebbero andate “proprio così” nel corso dell’evoluzione, non perché fosse inevitabile che lo facessero, ma perché qualche imponderabile fattore contingente avrebbe tutte le volte impostato, per un puro accidente fortuito, il corso degli eventi in un certo modo. Guarda caso, questo risultava sempre essere il modo più appropriato affinché, in un lontano futuro, potessero comparire organismi di capacità cognitive e complessità crescenti. Quest’ultima riflessione appariva particolarmente evidente a Stephen Jay Gould, che dedicò l’ultimo capitolo del libro “La vita meravigliosa” all’elencazione di una serie (parziale) delle “felici circostanze” che hanno portato alla comparsa della vita intelligente sulla Terra. Secondo l’analisi di Gould, se anche uno solo degli scenari descritti si fosse svolto in maniera differente, con ogni probabilità oggi il nostro pianeta non sarebbe abitato da una specie in grado di sviluppare scienza e tecnologia affidabili.
D’altra parte, il dogma monodiano non lascia via di scampo: nell’ambito di tale schema, ogni innovazione evolutiva dipende esclusivamente da particolarissimi eventi contingenti e da concomitanti mutazioni genetiche casuali, ognuna con una probabilità di verificarsi inesprimibilmente piccola. Cosa esattamente implichi questa concezione, e quali indicazioni possano esserci in vista di un suo eventuale superamento, lo vedremo però meglio la prossima volta.