Non passa giorno in cui io non pensi al Marocco. Mi sto quasi abituando a queste percosse da parte di nostra signora della malinconia.
Sud-est del Marocco, villaggio di Khamlia
Prima erano fitte vertiginose, in stile tequila sale e limone, che si concludevano con domande biascicanti dalle strazianti non- risposte sul perché non vi facessi immediatamente ritorno, seguite da improperi sconclusionati contro il destino tiranno. Poi sono diventati momenti di commozione romantica durante concerti in dolby surround dei Sigur Ros, abbracciata a poveri peluche rassegnati, obiettivi preferiti di lacrime e mocciolo fin dalla bella età adolescenziale. Commozione che poi si trasformava in ira contro gli stessi animaletti, colpevoli in alto grado di inutilità e, come se non bastasse, di cospargimento d’acari, e per questo selvaggiamente lanciati in ogni dove, mentre i Sigur lasciavano mestamente il posto ai Marilyn Manson. Insomma se ci fossero stati diari Smemoranda strappati in terra e poster dei Backstreet Boys sulle pareti sarebbe stato più o meno il 1997.
Prendendomela con il destino e con i polverosi pelosetti, devo dire che non ho risolto molto quindi ho deciso di affrontare questo malumore in maniera più matura e consapevole, lottando cioè testardamente per rinchiudere il Marocco nel passato, catalogandolo come meravigliosa esperienza finita, conclusa, esaurita, estinta, terminata, compiuta, risolta, consumata, insomma ci siamo capiti.
Ovviamente ho fallito. Ma da questa sconfitta sono risorta come l’araba Fenice con la lampante illuminazione risolutiva:
“Non c’è soluzione a questo tipo di malinconia!” diceva il fumetto che accompagnava la lampadina archimedea sulla mia testa. Non puoi usare un ragazzo come chiodo schiaccia chiodo, non puoi svaligiare Zara né mangiare 3 kg della sottomarca della Nutella del Todis. Fattene una ragione Sara, schiaffeggia pure Uga la Tartaruga quanto ti pare, ma accetta la realtà: non confinerai mai il Marocco nel tranquillo passato. Il Marocco sarà sempre parte del tuo burrascoso presente. Anzi, sarà proprio la causa della burrasca. Non ti resta che digerirlo a piccole dosi quotidiane mandandolo giù di traverso come lo sciroppo.
Così aveva parlato il mio cervellotico Zarathustra. E così iniziai ad adeguarmi.
Questi giorni per esempio sto cercando di digerire Khamlia…
Khamlia è un villaggio di circa 140 abitanti, incastonato tra il deserto dell’Ergh Chebbi e le montagne dell’Atlas.
Per secoli abitato da una mescolanza di popoli berberi, arabi e sub-sahariani, oggi è conosciuto, anche al di fuori dei confini nazionali, come culla della musica Gnawa.
Dei suoi pochi abitanti infatti la maggioranza sono Gnawa, indicando con questo termine i discendenti degli schiavi, condotti qui secoli fa dal Senegal, dal Sudan e dal Mali, che hanno portato con loro questo speciale tipo di musica, accompagnata da danze ipnotiche, le quali si dice possano portare al raggiungimento di stati di trance (musica che non ha nulla a che vedere con la copia storpiata ad uso esclusivamente commerciale che viene suonata in Piazza Djema El Fnaa a Marrakech, proprio accanto alle tristi scimmie ballerine e alle prepotenti tatuatrici di henné).
Gli strumenti principali usati dagli Gnawa sono particolari tipi di liuto, cembali, tamburi e le famose nacchere metalliche il cui suono ripetitivo e ferroso riproduce quello delle catene un tempo trascinate dagli schiavi sub-sahariani, i cui canti dolorosi sono oggi ripresi dai versi ripetuti ad occhi chiusi dalle profonde e vibranti voci dei suonatori.
Quest’arte rappresenta una grande attrazione turistica per il villaggio, che vivrebbe altrimenti solo di agricoltura. E dire agricoltura nel deserto è un po’ un paradosso, è come dire ordine nella mia stanza ovvero lotta quotidiana e dura contro un fenomeno inevitabile ed inarrestabile. Nel mio caso il disordine, nel loro l’avanzata della sabbia.
Ecco perché la musica Gnawa negli ultimi anni è diventata una risorsa importante per il villaggio, richiamando l’attenzione di un gran numero di turisti. La vera particolarità del villaggio è che, nonostante questo è rimasto, oserei dire miracolosamente, intatto, trovandosi a pochi chilometri da altri villaggi, come ad esempio Merzouga, dove il turismo sta manifestando invece tutti i suoi lati più feroci: costruzioni abusive che si infilano nei vuoti legislativi di luoghi in cui la legge corrisponde ancora con la volontà dei capifamiglia, orde di turisti in bermuda che raccolgono la sabbia del deserto per poi farne porta-candele radical chic a casa, mega-hotel chiusi da cinte murarie per salvare i sopradetti turisti dalla poco estetica vista della povertà circostante, etc…
A Khamlia questo non accade grazie alla lungimiranza di alcune tra le più importanti personalità del villaggio che, riunite in un’associazione, hanno deciso di porre a priori un freno al turismo di massa. Nel villaggio infatti ancora non ci sono strutture ricettive e chi ha la voglia e le motivazioni giuste per fermarsi, viene ospitato nelle case, creando così una selezione automatica dei turisti. La maggior parte di loro viene per assistere agli spettacoli musicali per poi dirigersi altrove, mentre chi resta affascinato dalla pace e dal silenzio di quel luogo, che inevitabilmente diventano spunto di riflessione e meditazione, resta più a lungo, nonostante la mancanza di comfort (c’è solo un piccolo shop, tra l’altro poco fornito) e del lusso che contraddistinguono le giganti strutture alberghiere con piscina che circondano le circa 40 case del villaggio con fare minaccioso.
E’ cosi che Khamlia ha deciso di aprirsi al mondo e allo stesso tempo di tutelarsi. E’ così che Khamlia ha deciso di salvarsi, proprio attraverso il turismo responsabile.
E cosa fa dunque chi resta a Khamlia, oltre a trovare se stesso? (non è uno scherzo, credetemi io incontrai filosofi, santoni e seguaci di ogni religione in cerca del proprio destino proprio lì!)
Attraverso l’associazione chi resta può partecipare a tantissime attività, dai corsi di musica a quelli di cucina o di cucito (avete mai tessuto a mano un tappeto su giganti telai di legno??),dalle gite in bicicletta a quelle a dorso di cammello. E’ possibile aiutare nelle attività agricole o in quelle scolastiche, insegnare la propria lingua ed apprendere berbero e francese, insomma da fare c’è tanto, e molto più da ricevere, credetemi.
L’associazione si occupa anche dell’istruzione dei più piccoli, colmando le lacune dell’unica scuola che cade a pezzi a pochi passi da lì.
La scuola dell'Associazione Khamlia
Mohamed, uno dei fondatori dell'associazione Khamlia, insegnante d'arabo e francese ed ovviamente, musicista Gnawa
Non riesco ancora a spiegarmi e a spiegare perché il villaggio di Khamlia fosse magico… Non so se erano le voci degli Gnawa che accompagnavano le ore, diventando un sottofondo armonico dello scorrere del tempo. Non so se era quella polvere mista a sabbia che volteggiava discreta tra le persone disegnandone il contorno, che le precedeva, annunciandone il lento arrivo e che le seguiva tracciando scie struscianti che non lasciavano tracce.
Non so se erano gli animali silenziosi che rimanevano ad osservarti serenamente, ma attentamente, mettendoti in imbarazzo come quelle persone che ti scrutano a fondo, dandoti l’impressione di volerti scavare dentro, senza proferire parola, lasciando a te la difficile interpretazione delle conclusioni che hanno tratto da quegli intimi scavi…
Non so se fossero i bambini sporchi appena usciti da uno spot pubblicitario di Save the children, che non suscitavano invece alcuna tenerezza o senso di colpa nel loro vagare a piedi scalzi giocando con il niente e divertendosi con il tutto… Tanto pieni della loro furbizia, della loro simpatia, della loro intelligenza, non avevano bisogno d’altro per trionfare sulla scena, per essere ammirati e venerati nelle loro perfette cadute da imperfetti mono, bi e tricicli…Piccoli bronzi di Riace saltellanti, grandi collezionisti di scarabei spaventati, giganti artisti di strada… I bambini di Khamlia sono diversi. Non ti sorridono solo perché tu sorridi a loro, non ti vengono incontro correndo solo perché tu gli tendi le braccia…Sono sospettosi, dispettosi, severi giudici di un’alterità troppo altra per loro… Educati a distinguersi dai bambini degli altri villaggi, capaci di correre un km dietro ad una macchina di turisti per chiedere l’elemosina, allenano le loro menti e non i loro polpacci. Educati all’attenzione, al rispetto e alla più integra dignità, i bambini di Khamlia prima di concederti l’immenso dono della loro amicizia hanno bisogno di prove di fiducia degne della più importante confraternita collegiale statunitense. Verificheranno la tua onestà, la tua sincerità, scannerizzeranno il tuo io, vivisezioneranno il tuo cuore e dopo una lunga attesa, se sarai stato in grado di pazientare all’ombra dello stesso albero, alla stessa ora, per più giorni consecutivi, allora si siederanno lì con te e ti permetteranno di disegnare con loro sulla terra. Quindi attenti al disegno che farete, quello sarà il vostro curriculum vitae… Forse l’ alone fatato di Khamlia dipende proprio dal silenzio. Un silenzio non dovuto alla differente e quasi invalicabile antica lingua ,il berbero, bensì dovuto alla mancanza della necessità delle parole, sostituite da una forma d’espressione diversa, fatta di segnali, di vibrazioni, di tante frequenze percepibili solo con il tempo. Al principio mi aggiravo per le vie, alzando la terra con i piedi, cercando di scavare per scovare la chiave che mi avrebbe aperto i loro cuori, le loro braccia… Avvertivo quel silenzio che sembrava fatto di tante buste che chiudevano sottovuoto ogni elemento circostante, come se tutto fosse ermetico, ovattato, protetto da barriere antisuono sulle quali rimbalzavo. Mi domandavo quale fosse la parola magica, quale fosse quell’abracadabra che d’improvviso avrebbe liberato tutto e mi avrebbe permesso finalmente di ascoltare ed essere ascoltata. Dov’era la chiave? Qual’era la parola? Solo dopo tanti giorni di ricerca solitaria ho capito che non c’era nessuna chiave sepolta né nessuna parola custodita. Non mi ero resa conto che ero io quella avvolta in una busta di plastica, ero io quella su cui loro rimbalzavano, ero io quella di cui loro stavano aspettando un segnale. Non era il loro silenzio la barriera, era il mio aver bisogno di parole, era il mio credere che solo attraverso di loro avrei trovato quel contatto, avrei acceso quell’interruttore. E’ stato quando ho capito che potevo essere parte della loro famiglia rinunciando alle mie tanto amate prolisse conversazioni, che ho smesso di cercare di parlare, di cercare di sapere, ho smesso di aguzzare l’udito ed ho iniziato ad affinare il cuore. A quel punto ero già loro sorella, loro madre e loro figlia. Solo che non me ne ero ancora accorta.