Io spero che poi si trovi, the mysterious boy of via Solferino. In pratica, c’è questa ragazza che ha incrociato in via Solferino, a Milano, un uomo che correva. E se n’è follemente innamorata. Pare che sia tornata nello stesso posto, alla stessa ora, per tre settimane, sperando di incontrarlo. Nei film, quando succedono queste cose, all’ultimo giorno lei va via con lo sguardo basso e, senza accorgersene, va a sbattere proprio contro il tipo che cercava. Siccome questa di via Solferino a Milano non è una storia sceneggiata ma – dicono – vera, lei il suo misterioso runner non l’ha più visto. E allora ha raccontato la sua storia a un’amica, questa donna qui. In pochi minuti, è nata una pagina su Facebook e la ricerca ha preso il via.
Così, mentre io spero che l’innamorata e il ragazzo che correva s’incontrino, vi racconto un’altra storia, tutta mia. Un po’ simile a quella qui sopra, in effetti.
È la storia del ragazzo della biblioteca. Quando la mia relazione col Parolaio è finita, ero così triste, depressa e spezzata che le Dears non sapevano più come fare a tirarmi su. Io nuotavo nella mia disperazione, e loro stavano per gettare la spugna, vedendomi sparire dietro le mie occhiaie. Poi DearLowe ha preso la situazione di petto. S’è presentata a casa mia, una mattina, con una brioche e il caffè. «Hai rotto i coglioni», ha detto, «vestiti di corsa e andiamo all’università a studiare». Ci siamo infilate nella sua Tania, una vecchissima Peugeot rossa, e ci siamo dirette in facoltà. Per tutto il giorno, salvo qualche sporadica pausa caffè, ho studiato. Nella Letteratura italiana ho trovato la mia salvezza.
La biblioteca-aula studio è una specie di bunker. Si trova nei sotterranei di un antico monastero benedettino, e per entrarci devi posare le borse negli armadietti di sicurezza e accontentarti di portare con te solo libri e matite. È un posto alienante. DearLowe mi aveva porto su un piatto d’argento la cura per tutte le mie ferite. Non c’era modo migliore dello studio per dimenticare il cuore.
Un giorno, in biblioteca c’erano solo due posti liberi. DearLowe si è seduta davanti a me, io accanto avevo un ragazzo. Sottolineava libri giganteschi con la matita e il righello, era tutto intento a prendere appunti e non si arrabbiava se io e DearLowe ogni tanto ci distraevamo e ci mettevamo a farci i fatti nostri perché della tristezza di Leopardi proprio non ne potevamo più. Il giorno dopo ancora, in biblioteca c’erano solo due posti liberi. Accanto a me, lo stesso ragazzo. È andata avanti così per settimane. Se per un giorno lui non veniva, io lo notavo. E lui notava il contrario. Ci davamo perfino il cambio per fumare. Quando ho finito di preparare la materia, ho chiuso il libro rumorosamente. «Ho finito», mi sono compiaciuta. E allora lui mi ha rivolto la parola: «Che studiavi?» «Letteratura italiana, e tu?» «Diritto» «Ah, sei di Giurisprudenza?» «Capita».
Io l’esame l’ho superato e lui non l’ho più visto. Fino a metà estate. Padre, quando finiscono le sue ferie estive, invita tutta la famiglia a mangiare una pizza fuori. Sempre nella stessa pizzeria, perché è in un piccolo paese e di sera fa più fresco che in città. È il suo modo per fare il punto sulla vita della famiglia, per sapere che succede nelle vite di noi figli degeneri che non raccontiamo mai nulla in casa. Quando il cameriere è venuto a prendere le ordinazioni, mi ha guardata in maniera strana. E io ho guardato lui allo stesso modo. «Sei la ragazza della biblioteca» «E tu sei il ragazzo della biblioteca» «Com’è andata Letteratura?» «Bene, e Diritto?» «Ancora non l’ho dato» «Ma che ci fai qua?» «Ci lavoro, da quattro anni». Dopo pochi minuti, è sparito tra i tavoli e non s’è più visto. Prima di andare via l’ho cercato, sono andata da una sua collega per chiedergli dove fosse, e allora mi sono ricordata di non sapere il suo nome.
Alcuni mesi dopo, stavo uscendo di corsa dalla facoltà. Avevo fretta, non ricordo perché. Stavo guardando il cellulare e non ho fatto caso che stavo per sbattere contro un tizio. «Scusa», gli ho detto. Ed eccolo là, di nuovo, il ragazzo della biblioteca. Ed eccomi là, di nuovo, la ragazza della biblioteca. «Mi laureo domani», mi ha detto sorridendo. Io sarei anche rimasta a parlare, ma dovevo scappare e allora lui m’ha detto: «Senti, tieni il mio numero, chiamami, magari ci prendiamo un caffè una volta». Mi ha dettato il suo numero, mi ha detto il suo nome, s’è voltato e se n’è andato. Frequentavo già Monsieur Déjà vu. Gli ho raccontato l’incontro e lui, con fare scocciato, mi ha chiesto perché avessi accettato di appuntare un recapito del ragazzo della biblioteca. Forse perché ero offesa dalla sua mancanza di fiducia, forse perché ero di nuovo molto innamorata di un uomo e mi sembrava sciocco discutere per uno sconosciuto, comunque ho preso il cellulare e ho cancellato dalla rubrica quel numero là. Sparito, dimenticato, perduto.
A metà dicembre stavo uscendo dalla redazione con una mia collega. Era stata una brutta giornata, ero stanca e avevo ricevuto una pessima notizia. Stavo andando a prendere Vanda la Panda nella traversa dove la posteggio sempre. È una via stretta stretta con un cinema porno, una segheria e nient’altro. Me l’ha fatta conoscere il Parolaio, perché lui abitava a pochi metri. È stato lì che lui mi ha baciata per la prima volta. Ed è stato lì che io, l’1 gennaio del 2o11, ho convinto il mio fidanzato Trasfertista che se mi baciava non c’era niente di male. Adesso, a due passi da quella via, c’è il posto dove vado a fare la giornalista quasi ogni giorno. Dicevo, a metà dicembre ero in questa via sentimentalmente impegnata e, appena uscita dal posteggio, un ragazzo a piedi ha cominciato a fissarmi. «Giuro che non ho ammaccato nessun’altra auto nel fare manovra», ho pensato. Lui mi fissava ancora e allora ho capito e ho sorriso. Ho abbassato il finestrino e ho esultato: «Sei il ragazzo della biblioteca!». «Lavoro qui, a due passi» «Ma dai? Anche io» «Senti, magari uno di questi giorni ci andiamo a prendere un caffè» «Sì, dai, ci vedremo sicuramente». E non ci siamo più visti.
Il suo nome comincia con la esse, mi è sembrato che uscisse da una Peugeot verde bottiglia, ma non ne sono sicura. È laureato in Giurisprudenza e lavora in una via che i catanesi conoscono per una famosissima salita. Credo abbia ventott’anni, ma non ne sono sicura, e credo porti gli occhiali, ma anche di questo non sono sicura. Studiava Diritto (privato, mi pare) sottolineando con la matita e il righello. Se lo conoscete, ditegli che sono almeno tre anni che abbiamo un caffè da bere insieme.
Magari li troviamo tutt’e due. Il mysterious boy of via Solferino e il ragazzo della biblioteca.