Anna Lombroso per il Simplicissimus
Chiunque non sia ferocemente affiliato, personalmente coinvolto, felicemente fidelizzato all’ideologia di questo governo sa da tempo che il suo istinto alla de-regolazione, una necessità per consentire alla speculazione finanza di esplodere mantenendo i più alti rendimenti possibili e per mettere a disposizione di una produzione anarchica e sempre impoverita masse di lavoro precario e ricattabile, ha dichiarato il nostro fallimento ma conferma che l’autoespansione dissennata e illimitata risponde a una vocazione suicida, come nel succedere all’euforia irrazionale dei mercati la malinconia recessiva. Dimostrando che non c’è progresso in queste forme creative della società, ma il perverso perseguimento di una crescita sempre meno produttiva di pubblica felicità e di fiducia nel futuro, di laceranti disuguaglianze e di effetti sempre più distruttivi della natura.
Bastava il ragioniere che amministra il mio piccolo condominio a fare scelte così mediocri, improduttive, inique e cialtrone come quei provvedimenti che oltraggiosamente vengono definiti riforme o processi di organica riorganizzazione secondo l’ingiurioso eufemismo in voga nella nostra età dell’incertezza. Questi servitori pasticcioni di una plutocrazia mondiale che dall’accumulazione di ricchezze nelle più varie forme, trae rendite e potere, non hanno le caratteristiche di una classe dirigente, ma di una casta che assomiglia di più alle aristocrazie decadenti che alle borghesie imprenditrici, sia per quanto riguarda la sua disfunzione sociale che per le sue bizzarrie esibizionistiche.
Il fatto è che dimostrano una certa efficacia, peraltro distruttiva, nell’applicare la de-regolazione, non per creare quel regime di licenza “libertina” favorevole a forme creative e all’iniziativa imprenditoriale e competitiva, ma solo per determinare uno studiato disordine delle leggi e delle regole che favorisca nel cotesto pubblico e sociale l’infiltrazione di soggetti privati, più o meno legittimati, incontrollati e incontrollabili, annientando l’azione dello Stato, delle istituzioni e dei poteri, come dimostra l’offensiva contro la magistratura che a Taranto sta difendendo la salute dei lavoratori e dei cittadini e l’ambiente di tutti.
In questa chiave va interpretata la legge di revisione della spesa, quella che fa rimpiangere i tagli lineare di Tremonti e che si presenta come un raffazzonato postulato delle misure per le privatizzazioni e degli interventi di svendita del patrimonio pubblico.
Con la solita gaglioffa perentorietà prosegue sulla via maestra di annientare sovranità e potere dello Stato, anche nei poteri di controllo e vigilanza, liquidare i beni comuni, avvilire l’interesse generale, con tagli che largheggiano nell’esaltazione del primato desiderabile del “privato”, nella sanità, nell’istruzione, nella sicurezza. E nell’unica vera ricchezza rimasta, se la spending review non assegna al ministro per i beni e le attività culturali nessuno specifico compito attuativo, confermando il rigoroso regime del demanio culturale come disegnato nel codice dei beni culturali e del paesaggio e aprendo all’inquietante istituzione dei “fondi comuni di investimento immobiliare” affidati alla gestione esclusiva del ministero dell’economia e delle finanze, cui verrebbero trasferiti i beni immobili “che siano stati riconosciuti privi di alcun interesse culturale” con una espressa dichiarazione negativa di oscura competenza, quando invece vige una “ presunzione di interesse culturale” in forza della quale ogni bene la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni, pur se non sia stato oggetto di formale riconoscimento, è assoggettato al regime del codice dei beni culturali e che i beni immobili di interesse culturale degli enti pubblici territoriali (quindi stato e comuni) costituiscono il demanio culturale.
Non occorre essere particolarmente maliziosi per intuire che dietro a certe acrobazie si nasconde l’intento di rendere alienabile quello che non dovrebbe mai esserlo, valori preziosi e identitari, la cui corretto e armoniosa offerta a tutti dovrebbe comportare equo profitto per tutti, secondo principi del tutto incompatibile con i meccanismi automatici e indiscriminati – e con gli stessi fini – della legge di revisione della spesa, perciò inapplicabili al patrimonio culturale e al demanio pubblico.
Quando perfino Goering deporrebbe la pistola nella fondina, convinto della produttività della cultura, il governo la lascia nelle mani inoperose di un ministro a un tempo spocchioso, inadeguato, arrogante ed inetto e si prepara a svenderla come fosse una proprietà poco curata di cui disfarsi per fare cassa e disimpegnarsi dalla sua manutenzione.
La più grande vittima delle trasformazioni capitalistiche, degli orrori perpetrati dalle classi dirigenti europee ed anche dell’acquiescenza rinunciataria delle sinistre è stata l’idea di progresso, forse l più radiosa narrazione dell’età contemporanea: la grande fede di una umanità in marcia verso i lidi dell’emancipazione universale. E infatti ai nostri ministri piace di più la loro crescita, vista come il semplice avanzare, comunque e a qualsiasi prezzo, anzi il tirare innanzi, come nella parabola dei ciechi. Ciechi e ignoranti se al centro della visione “forte” dello sviluppo, si erge la libertà degli individui, ma solo alcuni, l’eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali. C’è poco di civile, di umano, di bello e di buono, di favorevole allo sviluppo della persona e della sua felicità in armonia con il mondo intorno e la sua bellezza nel grande racconto del capitalismo contemporaneo, nei suoi capisaldi: liberalizzazione, privatizzazione, competizione, flessibilità, detassazioni, al posto del paesaggio, dell’affermazione delle vocazioni dei ragazzi, della creatività delle piccole botteghe, di bei filari e di campi ben pettinati.
Ma che futuro magnifico e progressivo possiamo intravedere dietro queste promesse? Quale pubblica felicità, se il risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri, se per la prima volta nella storia contemporanea dell’Occidente in un racconto politico manca il lieto fine. Se le parole domani, speranza, uguaglianza, solidarietà e libertà sono consunti rifiuti, come le merci del consumismo quotidiano.
Per questo bisogna vedere nel fronte dei beni comuni il campo di battaglia per la nsotra emancipazione, per il riscatto da una storia segnata dalle predazioni private, dalla rapace appropriazione delle terre, dei boschi, delle acque, dei desideri, delle inclinazioni, delle scelte che prima appartenevano alle comunità e delle quali la comunità poteva decidere.