Magazine Poesie
AA.VV. - La disarmata - CFR Edizioni,2014
Un libro divertente, e mica è poco. Be', non soltanto questo, naturalmente. Una collettanea uscita da un incontro tra amici, tutti uniti dall'esser nati a Napoli, "pur se in maggioranza migranti", e di avere un comune amor critico verso questa città. Viola Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Immo (non chiedetemi chi è, non ne ho la minima idea) e Gianni Montieri si sono divisi il compito di mettere in versi una specie di attraversamento, non solo topografico, della città, partendo ovviamente da loro "sentimento" o ri-sentimento nei suoi confronti. Un attraversa,mento, o un ghirigoro, che secondo Flaiano è in Italia (figuriamoci poi a Napoli) la linea più breve tra due punti, un giro tra pubblico e privato, tra presente e passato, tra possibile e improbabile, tra sociale e politico ma senza ridondanze, un piccolo, personale sguardo, ma senza voyeurismi, sul corpaccio cittadino. Non aspettatevi una "guida" di Napoli. Anzi, ci sono elementi sufficienti per perdersi, eventualmente, come si conviene in poesia. E non aspettatevi nemmeno la camorra, o Scampia, o cose del genere, e anche di munnezza ce n'è poca. L'approccio è ovviamente soggettivo, potremmo dire intellettuale o, proprio a fare i difficili, borghese, ma senza dubbio anche emotivo nei confronti di questa città "disarmata" (una speranza?, una constatazione di impotenza? uno smantellamento?) e complicata. Complicata talvolta anche per il fatto che ci si aspetti a torto la "narrazione" napoletana, che vi si cerchi sempre una napoletanità, una eccezionalità. E invece gli autori sono stati bravi a darne uno sguardo per così dire laterale, anche ironico, anche onirico, anche metalinguistico (una città può essere un linguaggio, magari più della sua lingua?). Certo poche città come Napoli si prestano a farne una metafora, anzi una allegoria, mica si può fare un libro così su tutte le città, non certo su Firenze, figuriamoci su Pisa, magari forse su Roma, che ormai però non ha più una identità se non quella della corruzione politica e urbana. E come c'è qualcosa di attrattivo, anche nel ricordo, per qualunque forestiero che abbia sostato almeno un po' a San Gregorio Armeno o sul Decumano inferiore, certamente c'è qualcosa di ombelicale tra un napoletano, anche se migrante, e Napoli, qualcosa di cocciutamente persistente in quello che ho chiamato amor critico, resistente oserei dire a qualsiasi mutazione antropologica. Poi naturalmente in questo quadro ognuno ci mette del suo, con i suoi mezzi: Viola Amarelli nella sua sezione "rettoriche" usa il linguaggio come una installazione in una via della città, quasi un corpo estraneo da cui la realtà, le incrostazioni di materiali vengono estrusi e ricollocati, reimpostati nel suo stile attraverso il valore sibillino e insieme accusatorio dei nomi, degli aggettivi che denotano all'infinito (ipoteticamente possibile) gli attributi del luogo e le sue rogne; Gianni Montieri immagina, in "turisti americani", il probabile (perché no?), un piccolo Grand Tour di cui Partenope dovrebbe essere tappa obbligata, e letteraria più che turistica, dei "suoi" autori (Roth, McCarthy, Carver, DeLillo, Bolaño ecc.) collocandoli in posti strategici della città, in punti rossi su una mappa ideale (you are here ►), ma come una location, un esterno giorno dello sguardo e del pensiero dell'autore come se fosse interpretato suggestivamente da altri, con un'aria un po' così, un po' di come se, un po' straniera, o viceversa immaginando "il pensiero quotidiano dei presenti viaggiatori, leggermente sorpresi, ma attenti" (Elio Grasso, nella postfazione); anche Francesco Filia, nella sezione "stradario", sceglie l'incrocio di vie, i luoghi, una toponomastica però in questo caso del tutto personale, legata ai ricordi, alle sensazioni, alle esperienze, uno scenario anche teatrale popolato di gente, di affinità e differenze anche sociali, di "strati" di cose e persone, di storie però per così dire "ripetibili", non del tutto relegate al passato, non del tutto fissate nel presente, che appaiono essere non meno organiche a questa città delle sue strade ortogonali; la geografia "vissuta", ma da una prospettiva differente, è anche la scelta di Vincenzo Frungillo, nella sezione "zona est" ("storico insediamento di un proletariato industriale spazzato via dalle logiche postmoderne", nota degli autori), essenzialmente un luogo quasi senza nomi, uno spazio fisico e mentale in cui la storia "assurge a testamento personale e popolare, contiene la mai programmata transizione fisica della poesia" (ancora Grasso), ma col peso del dolore patito direttamente, sia esso della morte di qualcuno amato, della "dismissione", o dello sfregio ambientale di quel medesimo luogo che grava sulla morte stessa, che inquina le acque e gli animi ma che non impedisce tuttavia quella traduzione in versi a cui allude Grasso; mentre il registro di Immo si distanzia sensibilmente dagli altri, nella sezione "ci stanno un napoletano un napoletano e un napoletano, ovvero: 8 poesie ma 9 pagine (come higuain) sul significante NAPOL", pur non interrompendo "la corrente tra poeti della stessa foggia" (sempre Grasso): non la interrompe infatti, semmai raccoglie certi materiali decantati dagli altri e li "curva nell'invettiva pop e amarissima" (da una nota degli autori), magari ci cazzeggia un po', li rappa, li performa, li mette in "musica" (e non ci scordiamo che piazza musicale è Napoli, da sempre), proletarizza il tono, ma li mantiene in tensione, recupera delle maschere, compresa quella del folle Scardanelli, l'eteronimo con cui Holderlin tentò di prendere le distanze da sé stesso e dal suo passato. Ma in fondo non ci sono distanze da prendere. Per tutti Napoli, anche quando non nominata, è insieme reale e sfuggente, ma sostanzialmente, per quanto possa sembrare contraddittorio, qualcosa di rassicurante, che bene o male c'è, con una sua perdurante presenza nell'anima, per tutti orgogliosamente un ubi consistam, un fondamento. (g.c.)
Gianni Montieri
Don Delillo al Cardarelli
Prima è stato un silenzio sordo
dopo nulla, apro gli occhi adesso
a sinistra del letto un muro sporco
e più avanti una finestra, dietro alberi
la flebo nel braccio, le gocce scendono
e anche fuori piove, c'è un altro uomo
ha un tubo nel naso, non lo sento
eppure credo urli, forse bestemmia
Napoli non l'ho ancora vista, o forse
è questa: soluzione distillata in vena
il lampo antico di mia madre che balla
il volto del santo sulla parete di fronte.
Donald Barthelme a Piazza del Plebiscito
La statua di cristallo liquido, di vetro fuso
si muove verso il lato destro della piazza
Il palazzo reale prova a piegarsi sull'acqua
un lampione colorato si flette e lo tira su
l'uomo non risponde, è svenuto, perduto
l'ambulanza viene da dietro, dal San Carlo
il medico è tranquillo, fa segni come "ok"
uno con la divisa blu li sposta tutti quanti
come in un cerchio magico che si apre
nel cerchio della piazza, vedo lo scrittore
steso, da morto so che non è il suo tempo
poi uno scooter balza fuori dalla metropolitana.
Viola Amarelli
rettoriche
la porosa la cava la tufacea
la violata la commediante la mariuola
"a cruda
la greca la sveva l'angioina l'aragonese la spagnola la mericana
la maledetta la divoratrice l'ossimora
la melodiosa la felix l'oncogena la miserrima
la magnamagna l'affamata l'anomia l'armoniosa la caotica
la voce la panza gli intestina l'interstizia l'amara
la sanguinaria o filo d'o fummo d'a munnezza l'abbandonata
la sacra la nascosta la divorata l'aperta
la folle l'affollata la plebaglia l'acchiappa acchiappa la tragica la
[ lagrimosa la medusa muta
a' chiatta la cadente l'imbrogliona l'affaticata la scheletrita la
[ schiattigliosa l'accidiosa
la cannibale la spaccata la lieve l'ironica la maschera l'iconica
[ l'anacoluta
la splendente la violenta la disamata
l'anima nera l'anima azzurrata.
la grande. madre.
doxa
Affogammo, tra cumuli di
plastica, allumini, tubi già innocenti
incuranti metastasi di merci
ingoiammo fossili refoli di vento,
l'eccedenza di stock, i filamenti
brillavano inesausti prendi prendi
intossicammo la mielina coi midolli,
incapsulati, polistirolo espanso
colorando di nero seppie ataviche,
pillole e polveri per tirare avanti.
Bruciammo terra, i polmoni, le radici
continuando a ripeterci bugie,
sopraffatti, sconfitti, aspettando ci regalassero
gli avanzi, mentre ci chiedevano insistenti
su cavi, satelliti, diapason impazziti
se fossimo — e perché no — felici.
Francesco Filia
Piazza San Gaetano
(A Raymond e Gianni)
Era la pausa per le mazzate, prima
del catechismo a una colpa
irrimediabile e mai commessa,
tra reperti abbandonati, chiostri
e palazzi addossati al silenzio
di questo gotico meridionale. Spazio
sovrapposto e millenni, capitelli e sezioni
di colonne accatastate, come parco giochi.
Passato e un futuro di strati sepolti
coincidono nella voragine del foro
mentre noi continuiamo ad inseguirci
su gradoni bagnati e lucenti
ad acchiapparci e scomparire dietro
un pilastro e riapparire improvvisi
e senza fiato in una banda
che si scompone e ricompone
come uno stormo di uccelli impazzito.
Vedo le tue spalle, come fiamme,
non voltarsi. Unica ad entrare nel patto
di questo pomeriggio furente. Il pegno
che accetti di pagare è questa
gomma appiccicata tra i capelli ed io
per mostrare la mia gioia
di essere, qui, con te, ti lancio
la prima pietra tra le mani e poi il sangue
nient'altro che il sangue
e l'atrocità di un sorriso accennato.
Corso Umberto I (Rettifilo)
Ci osservano dai vicoli ai margini del corso
dietro le vie di fuga bloccate da camionette
e cordoni della celere. I ragazzi dei vicoli
scendono al bordo del nostro sciamare
verso un punto inaccessibile oltre
l'assetto consecutivo dei palazzi, il cupo
aspetto dello stile umbertino, lungo
la teoria di serrande abbassate e occhi
dietro i vetri, alieni da uno spazio
remoto. Ecco lo sguardo fisso
d'incomprensione disprezzo, lo scherno
che lo attraversa marca la distanza tra
questo corteo e la loro camminata
sfrontata, trafigge i nostri occhi
abbassati, e in fondo sappiamo
che l'enigma di queste strade mai
riusciremo a risolverlo, l'assedio
dei motorini e urla gettate contro
i nostri visi ci esclude e non resta
che marciare verso quel luogo
buio, che non sarà mai nostro.
Vincenzo Frungillo
La dismissione
1.
Gli hanno regalato un pacco di biscotti,
Le ore liete, i più stupidi sono cinici
senza neanche accorgersene,
ma qui tutto è un po' casuale,
persino i baristi non hanno i denti,
li hanno lasciati aggrappati allo spettro familiare,
adesso sono il lato morbido delle gengive,
sono teneri come mio padre
che ci guarda impaurito dalla sua camera d'ospedale.
2.
Il suo pallore ci cattura in un bivio.
Il mondo rarefatto indugia sotto il Vesuvio,
visto dall'alto, sembra spezzato
dai primi raggi del mattino,
dal suo monotono nutrimento-
biscotti, il cappuccino, tutto ingerito
sorseggiando il mistero della terra di mezzo.
3.
Come il padre ha finito con lo sputare
ghiandole di mercurio sul lenzuolo,
ha confuso la fine con l'inizio:
"Tu chi sei?" Ha chiesto al figlio.
Cronos-soma, latrato del polmone guasto,
lastra ch'evidenzia l'escrescenza
nell'emisfero destro
e in quello sinistro un tartufo più piccolo- il figlio l'ha notato per primo-
"è maligno",
alligna nella corteccia,
sale lungo la schiena:
"Dove porta, ora, la parola?"
Non ha dato alcuna risposta.
4.
Hai urlato come per rompere il vetro
dello spazio, del tempo consentito,
per scorgere cosa c'è dietro,
li, dove ora si nasconde tuo marito.
Ho passato il mio dito sul suo viso,
ci ho provato anch'io, ma non è servito,
Nessun segno del destino
ce lo rende vicino.
Si sono chiusi i suoi occhi
e sui suoi occhi, ancora più stretti,
si sono chiusi gli occhi di dio.
5.
Advocatus et non latro, res miranda populo.
"Bisogna conciliare.
Non esistono prove
per una connessione di causa
tra la loro vita e loro morte.
Dovremmo ricostruire l'ambiente
la meccanica pesante,
la strozzatura,
l'aria che manca,
dovremmo ricreare la temperatura,
l'inferno della tettoia,
la polvere che cola,
il polmone saturo, il carcinoma,
la metastasi lungo la schiena,
Manca un testimone
per organizzare l'accusa,
nessuno vi darà ragione,
a voi la decisione,
la diretta generazione,
il ramo familiare,
la prova del sangue,
voi potreste parlare,
oppure tacere,
rispondere alla miseria
con l'istinto di sopravvivenza,
rimettere in linea lo stimolo-la risposta,
accontentarvi del poco che manca.
Perché dissotterrare tombe,
tentare le ombre?
All'uscita del Tribunale c'è un rigattiere
che compra bare usate.
Il mercato non ha limiti,
si alimenta in continuazione.
Persino i poeti finiranno
per eccesso di produzione".
Immo
poesia: disoccupazione
Oggi sono uscito dalla torre nella conca di luce
e bianco di piazza cario terzo, nelle asperità di pietra
d'ottocalli sudato fino alla lapide di capodichino.
Nell'ufficio felice, ero bagnato sopra ai capelli
e ho detto scusate ma lui mi parlava come si parla a un re
ed io avevo il collo otturato dai pensieri.
La stanza era il regno - federico comprese la natura
burocratica dell'umano, e tu non sai che felicità uscire con le
carte
in mano, non sai cosa ti perdi.
In questa strada noi puntiamo dritti ai capannelli,
Non vi è mai nessuno che cerchi d'umiliarti in questi gangli,
Che sollievo napoli sapere che il nemico è sempre a fianco a te.
Con devozione e calma, lo scardanelli dei miracoli
una mappa dello scardanelli dei miracoli
Quando andavo come un matto di mattina presto
Tra vìa cenisio piazza caneva e piazza diocleziano
Ero posseduto dal demone dei bar, ero senza componenti
Mi fermavo oppresso sulle panchine aspettando l'ora.
Molti anni prima le mie urla mute nella luce si facevano
La strada maggiore pignatelli e il profumo della sanità
Era un presepe senza bimbi popolato da antics
Piazza Cavour si restringeva da piccolo quando tornavo.
Invece da te venivo senza sapere della vendetta
Nelle gite preistoriche, nella piazza dell'orologio
Nell'incubo desideroso d'ogni strada.
Non c'entravano i concerti e gli sfottò
Via alessandria era un punto nello spazio.
È vero roma, la tua parola fa paura.
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