“Un atto violento nei confronti di innocenti, da condannare assolutamente”. Così il cineasta Abbas Kiarostami commenta gli avvenimenti di Boston, mentre è a Roma a presentare alla stampa il suo nuovo film, già passato al Festival di Cannes 2012: Qualcuno da amare, nelle nostre sale a partire dal 24 aprile. Una curiosità: il film è stato girato interamente in giapponese, con tutta l’equipe tecnica e il cast artistico nipponici. “Io ero il solo ospite straniero sul set”, dichiara il regista.
Come mai ha scelto proprio il Giappone?
Inizialmente dicevo perchè mi piacevano giapponesi, il sushi, l’ambiente. Stamattina, invece, riflettendo meglio ho capito che il film è qualcosa di universale: vi troviamo un’idea che appartiene a tutti e a tutto. Quando siamo lontani crediamo di essere molto diversi gli uni con gli altri, ma se ci riflettiamo vediamo che le lontananze creano solo malintesi, in realtà siamo tutti molto simili. Stamattina mi sono reso conto che il film può essere considerato giapponese-iraniano-italiano.
Come ha scelto l’anziano protagonista?
Per il professore (Tadashi Okuno) ho cercato tra molti attori professionisti, ma mi sono trovato in difficoltà: tutti i più anziani erano abituati a recitare, cosa che nel mio cinema non va. Cercavo naturalezza, e chi da 50 anni è attore di teatro o cinema non può essere spontaneo. Ho dovuto quindi allontanarmi da questa scelta e cercato tra le comparse. Okuno non ci credeva quando gliel’ho detto: da decenni faceva la comparsa, io l’ho rassicurato dicendo che i dialoghi erano pochissimi. Alla fine mi ha detto che non vorrebbe più fare l’attore, ma tornare comparsa: ha adorato l’esperienza, ma l’ha trovata troppo faticosa. Un uomo che preferisce stare all’ombra, lo ammiro molto.
Com’è stato accolto il film in giro per il mondo finora?
Credo che circa 20 paesi lo abbiano portato sugli schermi. Partiamo dal Giappone, in cui ci sono state reazioni opposte: chi ha adorato il film, e chi l’ha detestato. Del resto lì gran parte della popolazione non ama il cinema tradizionale giapponese, a cui mi sono ispirato. Lì gran parte dei cineasti riproducono, piuttosto, il cinema americano. Negli Stati Uniti il film è stato accolto molto bene, invece mi pare che in Europa e in Giappone siano più interessati ai film hollywoodiani. Viceversa, in America si stanno accostando sempre più al cinema d’autore.
E’ uscito il film nelle sale iraniane?
Purtroppo no. Ho anche proposto di doppiarlo, non è stato accettato. Ma so che il formato video con sottotitoli in inglese circola nel mercato nero.
Cosa può dirci dello stato di creatività attuale in Iran?
La creatività è qualcosa che va al di là delle condizioni sociali di un paese, qualcosa che non può essere soffocata da nessun sistema. Oggi nonostante le grandissime difficoltà sono testimone di una vivace creatività artistica in Iran, conosco giovani colleghi che si stanno esprimendo in un modo molto artistico a livello cinematografico. A volte la condizione sociale può anche aiutare a vivacizzare sempre di più la voglia di creare. Per quanto riguarda me, non è facile poter dire che rapporto ho con il governo iraniano. Potrei dire che non ci capiamo, non c’è rapporto diretto. Ci sono difficoltà che accettiamo e di cui parliamo spesso, a me non piace lamentarmi. Il mio film non ha nulla per essere fuorilegge o censurato, ma non c’è stata comprensione reciproca. Mettiamola così, il mio paese ha più difficoltà di altri. Eppure io continuo ad amarlo molto. Non voglio nessun altro passaporto, per questo vivo in Iran.
Tornando al film, può commentarci il finale, così sospeso da sembrare un “non-finale”?
Il finale non è strano, solo inusuale. Quando ho inviato la sceneggiatura al mio produttore francese, arrivato alla scena in cui la pietra lacera la finestra, sentivo che dovevo scrivere “The end”, ma dissi che avevo tempo per pensare ad un altro finale. Ho riflettuto un anno intero, dopo la tragedia in Giappone nel 2011, però poi ho scelto di mantenere quel finale perchè mi sembrava il più giusto. Del resto, noi arriviamo a metà strada e dopo un po’ abbandoniamo la storia, entriamo e usciamo, ma la storia non finisce. Possiamo pensare che il professore potrà avere altre avventure, che la storia continuerà, mentre i 100 minuti del film finiscono.
Come mai le scene clou sono girate dentro un’automobile?
Mi serviva un ambiente stretto per poter restituire l’intimità di due persone lontane generazioni, una fanciulla e un anziano: ogni volta che mi servirà girare in un abitacolo, come ho già fatto, continuerò a girare dentro un’automobile. Anche se la troupe mi chiede di non farlo più. Se volete guardare spazi aperti, dovrete accontentarvi di guardare fuori dal finestrino.
Cosa può anticipare del suo nuovo progetto?
Se dovessi fare un film, girerei sicuramente in Puglia. Mi spiego: ho una sceneggiatura già pronta, ho individuato già location e primo interprete. Non ho però in questo momento le condizioni opportune per girare, ma molti aspetti del film sono già pronti.
Ha girato in Toscana, ora parla di Puglia: che rapporto ha con l’Italia?
Intanto voglio dire che tutta la mia adolscenza e giovinezza è stata spesa vedendo film italiani, soprattutto il neo-realismo ha ispirato la mia carriera. Conosco da molti anni questo paese, più tramite il suo cinema che le passeggiate nelle varie città. Ho un senso di familiarità quando sono qui, e credo che questo valga per tutti gli iraniani: amiamo l’Italia e ci troviamo molto bene qui.
di Claudia Catalli