Negli ultimi tre mesi ho passato molte settimane Italia e soprattutto sull’isola, credo più di quanto non abbia mai fatto negli ultimi dieci anni. Ho accumulato un sacco di punti-Sardegna, insomma, scorpacciate di vita nel paesello, sedute di lettura di fronte al camino, dormite nel mio grande letto a due piazze che non chiamerò più matrimoniale – vuoto a metà – e risposte in diretta alle domande nonnesche.
Volente o nolente, mi sono riadattata ai ritmi della famiglia, cercando di incastrarci dentro i miei ma rinunciando a gran parte delle mie abitudini quotidiane. Mi è rimasto però molto tempo per osservare attitudini e caratteristiche della vita in Italia che la memoria selettiva aveva relegato in qualche angolo recondito del cervello, pur essendo passati solo 3 anni dal mio cambio Paese.
L’abbondanza di yogurt nel banco frigo del supermercato
È stato un lampo visivo in un Esselunga della cittadina di V, che si è poi ripalesato anche sull’isola: il banco frigo di un qualsiasi supermercato italiano di dimensioni medio-grandi è un’ode all’abbondanza latticina. Cercavo degli yogurt per la colazione, mi sono diretta con sicurezza al banco frigo su cui mi ero servita così tante volte in passato e ho avuto un accenno di sindrome da sovraccarico cognitivo. Di fronte a me si stendevano circa venti metri di scaffali di prodotti caseari, di cui almeno quasi la metà dedicati allo yogurt in qualsiasi sua forma. Liquido, denso, greco, italiano, dolce, naturale, con pezzi di frutta, con cereali, con cioccolato, senza grassi idrogenati, biologico, calorico, dietetico, alpino, caprino, con fibre o con lactobacillus, la crema di yogurt o il dessert, in bottiglietta o in vasetto, di plastica o di vetro. Ho perso lì di fronte almeno un quarto d’ora, bombardata da nomi di marche conosciute da sempre e altre nuove, desiderosa di provare nuovi gusti ma cercando di non spenderci un patrimonio. Alla fine ce l’ho fatta. Ma di fronte alla prospettiva di dover scegliere anche del formaggio – per il quale l’abbondanza non era da meno – mi sono arresa e ho chiesto al Guerriero di occuparsene.
Il punto è che non riconosciamo l’abbondanza e varietà di cui sono stracolmi i nostri supermercati italiani fino a quando non siamo costretti a fare la spesa quotidiana in un super straniero. A Barcellona la scelta si riduce basicamente ad alcune grandi marche su cui domina quella che inizia con la D, che offre i classici dei classici (naturali, alla frutta, con aggiunta di fibre più le versioni dessert), e la marca locale catalana La Fageda, che produce lo stesso tipo di yogurt ma almeno a pochi passi da casa.
Una cosa che non sono ancora riuscita a trovare a Barcellona è lo yogurt con pezzi di frutta. Immagino che fior fiore di ricerche di mercato abbiano provato che agli spagnoli faccia schifo masticare frutta mentre mangiano lo yogurt, perché altrimenti non si spiega.
Le discussioni sul cibo
Grande cavallo di battaglia dell’italiano all’estero, che esporta con orgoglio il marchio di fabbrica del “come si mangia in Italia, in nessun altro Paese del mondo!“, ecco che ci prepariamo alla missione partendo dalle tavole nostrane. A tavola, soprattutto in questi giorni di festa, incontrerete sicuramente tantissimi puristi della gastronomia italiana ed esperti sommelier. Sì, quelli che vi guardano male perché sorseggiate un bicchiere di vino bianco mentre azzannate il cosciotto di maiale, o quelli che si tappano gli occhi perché avete voglia di parmigiano sugli spaghetti alle arselle.
Quelli che il ragù di cervo che bontà, ma se provate a parlargli di una combinazione nuova di ingredienti o di un piatto estero, vi guardano smarriti, per poi sentenziare “ma come la cucina italiana…”.
E va beh, tieniti il ragù.
La terminologia televisiva
Vero che avevo smesso di accendere la televisione anche quando ancora vivevo a Milano. Ma seguire un telegiornale italiano nel 2015 sembra il trailer del prossimo cine-cataclisma. Anche i telegiornali che ho sempre considerato più morigerati e obiettivi, fanno un uso della lingua italiana che sembra appositamente studiato per farti mettere le mani in testa e correre a rifugiarti in un bunker.
È uno scialo di espressioni di terrore, in cui predominano i termini
- incubo
- tragedia
- paura
La sera della vigilia di Natale un titolo di apertura incombeva sul cenone urlando l’avvento di un “incubo natalizio“: ero già in procinto di stringere i braccioli del divano in attesa che venisse dichiarata l’apocalisse, e invece il servizio parlava della situazione degli alti livelli di pm10 a Milano e Roma.
Ok, è una situazione preoccupante, respirare aria incacrenita bene non ci fa. Ma si possono scegliere altre parole per parlarne? No, perché è imminente l’annuncio della prossima tragedia che si abbatterà sul nostro Paese: sarà la posticipazione della data di inizio dei saldi o la riduzione del consumo di pandoro [che ora che ci penso, non l’ho visto su nessuna tavola familiare quest’anno] che mettono in ginocchio l’economia italiana?
Sul serio, perché questa terminologia negativa? La cosa preoccupante è che poi anche le persone ne fanno uso, magari inconsciamente. Ho ascoltato discorsi intorno a un caffè sulla tragedia delle corse allo shopping pre-natalizio, per dire.
E allora non mi stupisco neanche più se l’umore medio degli italiani che mi circondano e che sento parlare è medio-basso. Magari se si spegnesse la televisione ogni tanto…
I sospiri
Sarà o meno una conseguenza del clima di negatività di cui sopra, ma non posso non notare l’alta quantità di sospiri nei discorsi della gente.
Possono essere i sospiri senza parole, oppure quelli sonori vocalizzati con eh… (da allungare a piacere). Cresciuta in un contesto sospiroso, ho un vocabolario di sospiri molto fornito. Meglio sempre accompagnare il sospiro con una frasetta, giusto per dare pathos.
Rientrano nella categoria le seguenti risposte sospirose al più classico degli incipit di conversazione:
“Come va”?
Eh… Va.
Ehhh…come vuoi che vada
Eh…il solito
Ehhhh. Più morti che vivi
(giuro)
Ho smesso di chiedere perché: rispondere “bene” anche quando si potrebbe sembra che porti sfortuna o la fine immediata del proprio benessere. Non vorrei essere accusata di tale crimine. Quindi mi accontento del sospiro, sorrido e penso ai sospironi che anche a me piacerebbe espellere ogni tanto: ma non voglio cedere, perché il “Ma tu di cosa ti lamenti“, da parte dei sospiratori, è sempre dietro l’angolo.