L’anno appena cominciato è il centocinquantesimo dell’unità italiana. Ricordare un simile evento non appaia scontato. Soprattutto se vogliamo occuparcene ponendolo in relazione al luogo dal quale – e in fondo anche per il quale – scriviamo. A causa della nostra collocazione geografica, della nostra storia, qui occorre adoperare una sensibilità e una responsabilità particolari.
Sensibilità e responsabilità hanno a che fare con la percezione di un limite. Ha scritto Eraldo Affinati componendo la voce “responsabilità” per il “Dizionario affettivo della lingua italiana” (Fandango): “Con gli anni ho compreso che la responsabilità non è un animale feroce, ma il nostro limite; tutti ne abbiamo uno: se non lo accettiamo, trovando lì e non altrove, la vera libertà, saremo infelici”. Contrastando una pseudocultura permeata dalla retorica del superamento di ogni limite (come se proprio in ciò consistesse l’essenza della libertà), tematizzare il rispetto o persino l’accettazione di determinati limiti significa riconoscere la non ovvietà del nostro stare insieme, la difficile arte di una convivenza da nutrire ogni giorno con rinnovata motivazione e con gesti di concreta apertura.
Torniamo al discorso dell’unità nazionale dal quale siamo partiti. È lecito chiedersi quale senso possa avere, oggi, per “noi italiani”, sentirsi italiani in Alto Adige? Oppure in che modo – affettivo, più che politico – si manifesti l’appartenenza all’Italia di un sudtirolese di madrelingua tedesca o ladina? Non è forse già in base alla posizione di queste domande che entriamo in contatto con i limiti del nostro stare insieme, fino a supporre che questi limiti vengano addirittura creati dallo stesso domandare? E non sarebbe dunque il caso, semplicemente, di non occuparci più di tali questioni, rivolgendo tutta la nostra attenzione ad altri argomenti?
Sempre Eraldo Affinati, in un bellissimo libro mosso dalla domanda “che cosa significa essere italiani?” (“Peregrin d’amore. Sotto il cielo degli scrittori d’Italia”, Mondadori), ci suggerisce l’idea che la vera voce del Paese consista nell’intreccio delle parole dei suoi più importanti scrittori. Parole diventate quasi inudibili, tuttavia ancora presenti e luminose come schegge di vetro nella crepa di un muro. Consapevoli della fragilità di questa voce, sfogliare e magari consigliare la lettura del volume di Affinati proprio ai concittadini d’altra madrelingua, mi sembra un buon modo per riflettere con la dovuta responsabilità sull’unità d’Italia in una terra, l’Alto Adige-Südtirol, collocata ad uno dei suoi tanti limiti.
Corriere dell’Alto Adige, 6 gennaio 2011