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Acciaio di Silvia Avallone

Creato il 20 novembre 2012 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Acciaio

In via Stalingrado, quartiere degradato pieno di case popolari in cui vivono gli operai siderurgici, Francesca e Anna, tredicenni come tante, vivono la loro fortissima e intensa amicizia affacciandosi con impeto ed entusiasmo giovanile all’adolescenza, inconsapevoli che il davanzale su cui posano i loro gracili e incerti gomiti, è scivoloso e precipitare è facile o forse inevitabile, poichè l’adolescenza è una lotta feroce contro se stessi, in cui sovente le sconfitte bruciano e le vittorie sono vane, e se dal pianto sboccia un sorriso, appassisce alla prima delusione. E per ogni paura c’è un sogno che esorcizza frustrazioni e fallimenti.
In un contesto tratteggiato con eccessiva e non sempre giustificata mestizia, in cui ci sono padri violenti o assenti, morbosi o farabutti e madri, invece, represse e sottomesse, in un contesto in cui anche i gatti appaiono dannati e perduti, le vie di uscita si smarriscono tra alcol e droga.
Anna e Francesca vogliono immaginare un futuro diverso, inventandosi ascose oasi che sfuggono al nebbioso e fumoso drappo dell’altoforno che incupisce polmoni e animi. Una riserva naturale di sentimenti e speranze, inaccessibile e illusoria.
Francesca e Anna, certo, ma anche Alessio e Cristiano, Sandra e Rosa e poi e ancora Arturo ed Enrico, Elena e Jennifer, via Stalingrado e l’Elba, l’isola un tempo chiamata Ilva. Un susseguirsi di binomi che rende tutti protagonisti, ognuno a suo modo, ognuno con un personale dirimpettaio narrativo: unicuique suum, a ciascuno il suo.
In mezzo a tutto e a tutti, lui, l’altoforno svettante e impassibile, atarassico.
L’altoforno, il ciclo integrale, l’acciaio. Il minerale ferroso e carbonio che con la loro fusione danno lavoro e sviluppo a migliaia di persone, offrendo una parvenza di ricchezza spesso commista a miseria e afflizione, perchè lavorare in fabbrica spacca la schiena e ti aliena dal tuo essere, ti estrania e robotizza. Ti impoverisce, dentro. Lo disse qualcuno già nel XIX secolo e fu una denuncia forte nel mezzo di una violentissima rivoluzione industriale. Succede ancora oggi, impietosamente nel nuovo millennio, nel silenzio della società moderna, post-industriale, multi-touch. Succede nella società liquida, mentre invece l’acciaio è solido, pesantissimo e fonde indisturbato soltanto ad una temperatura di 1500 ∞C.
Succede a Taranto con i suoi immani guai ambientali come nella città di Piombino, di fronte all’arcipelago toscano, in cui Acciaio, il romanzo d’esordio della giovane scrittrice biellese Silvia Avallone, è ambientato. Seppur la scrittura risulta a volte acerba e prevedibile, e non riesce a sottrarsi ad alcune semplificazioni, Acciaio non è mai banale o fatuo, sa essere sporco e “puzzare” dimostrandosi vivo nei momenti più significativi della trama facendo fondere insieme all’acciaio molti degli spinosi e irrisolvibili temi adolescenziali. Il legame c’è e ha una sua precisa temperatura di fusione rintracciabile nelle parole di Primo Levi: ´la nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia (…), vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi ed è nel faticoso tentativo di questa comprensione, nello sfuggire ad una condanna altrimenti inappellabile, che l’animo di un individuo può migliorarsi ed essere più nobile e meno suddito e così ritrovar se stesso e il proprio essere. Solo con questo sforzo, solo nel tentativo di andar oltre l’immediato si può ricomporre un’amicizia lacerata o un amore interrotto ma mai finito. Non è semplice e i personaggi di questo romanzo ci mostrano che a volte si riesce, e a volte no.

di Christian Dolci


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