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Distribuzione, depuratori e rete fognaria: così Cosa Nostra riorganizza un business ad alta redditività. Il pentito Francesco Campanella racconta il sistema di spartizione politico-mafiosa della gestione idrica che aveva ottenuto l’avallo del boss Bernardo Provenzano.
In Sicilia l’acqua non dà da bere: dà da mangiare e ingrassa. Gli oltre 400 milioni di metri cubi erogati da una rete che perde per strada un terzo di ciò che trasporta stuzzicano l’appetito di Cosa Nostra, che con gli appalti per l’emergenza idrica ha storicamente accumulato ricchezza e potere. Già nel settembre 2005 il pentito Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate e cassiere della locale famiglia mafiosa, aveva svelato gli scenari alla Procura di Palermo. Personaggio emergente della nuova mafia con significativi trascorsi nella politica, Campanella, che ha appena compiuto 36 anni, aveva parlato delle vicende del consorzio Metropoli Est costituito per lo sfruttamento del servizio idrico nei comuni del palermitano tra Villabate e Termini Imerese. Il collaboratore di giustizia ha spiegato ai magistrati che la gestione del business sarebbe dovuta avvenire «non con ditte locali ma cercando rapporti con importanti imprese nazionali o internazionali». Il progetto avrebbe dovuto segnare per Cosa Nostra un cambio radicale di strategia: non più l’imposizione del pizzo, ma l’acquisizione di «una quota di utile annua da remunerarci attraverso il sistema delle consulenze». Consulenze che avrebbero messo la mafia su un «percorso legale e per l’azienda fiscalmente detraibile».
L’operazione era stata concertata con Nicola Mandalà, l’uomo che gestiva la latitanza di Bernardo Provenzano. Mandalà ne aveva parlato all’allora capo di Cosa Nostra ed era tornato «entusiasta dall’incontro con lo “Zio” che gli aveva fatto i complimenti – racconta Campanella – poiché la sua strategia operativa era insabbiare Cosa Nostra e passare all’attività di impresa, direttamente, collegandosi in modo organico con la politica». Questo progetto è stato smantellato dalle indagini, ma – a giudizio dei magistrati – il modello mafioso di “infiltrazione” nel settore idrico è rimasto intatto. Anche perché, se Provenzano e Campanella sono ormai fuorigioco, i colletti bianchi e i politici che hanno ordito la trama sono ancora al loro posto.
Nel frattempo, recependo sia pure in ritardo la legge Galli, la Regione Sicilia ha costituito nove Ambiti territoriali ottimali (Ato) per la gestione integrata della distribuzione dell’acqua potabile, dei depuratori e delle reti fognarie. La Sicilia è tra le poche regioni che ha affidato a terzi il servizio idrico integrato. Il criterio seguito non è stato quello dei bacini idrografici, indicato nella legge, ma quello politico-clientelare-amministrativo: nove province, nove Ato. Sei di questi hanno seguito la strada della privatizzazione. Uno (Catania) ha costituito una società a capitale misto. Solo a Ragusa l’acqua è rimasta in mani pubbliche, mentre a Trapani è tutto da rifare. Qui una vecchia conoscenza della giustizia, l’imprenditore Pietro Di Vincenzo – ex presidente degli industriali di Caltanissetta, condannato in primo grado per concorso in associazione mafiosa dalla Procura di Roma, ma assolto in appello – era riuscito ad aggiudicarsi la gara. L’Ato l’ha però annullata per turbativa d’asta e a nulla sono valsi i ricorsi dell’impresa Di Vincenzo al Tar siciliano e al Consiglio di giustizia amministrativa.
Non solo: nel giugno 2008 la Procura nissena ha proceduto contro Di Vincenzo con una misura di prevenzione patrimoniale, chiedendone il sequestro dei beni, stimati in circa 120 milioni. Diversi pentiti lo avrebbero indicato come personaggio centrale del connubio tra affari e politica.
Le procedure di assegnazione presentano in genere gravi anomalie. La più vistosa è che in quasi tutti gli Ato – dopo tentativi talvolta andati a vuoto – alle gare s’è presentato un unico raggruppamento di imprese (pubbliche e private) che è poi risultato aggiudicatario della gestione del servizio. Il caso eclatante è quello di Palermo, dove l’Amap, la municipalizzata del capoluogo, ha ottenuto un regime di salvaguardia in base al quale potrà continuare a operare parallelamente all’Ato fino al 2021, ossia fino alla scadenza del contratto col Comune.Gli investimenti trentennali (2003-2032) ammontano a 5,8 miliardi, una cifra che fa del settore idrico la torta più appetibile in Sicilia. Da anni non si registrava nell’Isola un flusso così consistente di appalti. La parte del leone la fa l’Ato di Palermo, con oltre 1,261 miliardi, seguito dall’Ato di Catania, con 1,192 miliardi (si veda la tabella a fianco). E una parte rilevante degli investimenti – oltre un miliardo a fondo perduto – arriva dall’Accordo di programma quadro 2000-2006 della Ue. Le società aggiudicatarie del servizio potranno accedere ai finanziamenti pubblici europei solo se investiranno il 30% di risorse proprie.
«Di fatto – dichiara Ernesto Salàfia, dirigente dell’Amap di Palermo, tra gli animatori del movimento Liberacqua – le società di gestione stanno rischiando poco, trovandosi a utilizzare denaro pubblico». E questa è solo una parte della torta. Dice Anna Parrino, dirigente dell’Ato di Trapani: «Il vero affare sono i ricavi che giungeranno dalle tariffe. A Trapani il futuro gestore incasserà non meno di 28-30 milioni all’anno, che in 30 anni fanno circa 900 milioni di fatturato».Il “sistema Campanella” è stato affinato. Basta guardare le compagini azionarie dei vari gestori del servizio. Il modello tipo vede compartecipi imprese di costruzione, cooperative rosse, utilities del Nord, società di ingegneria e installazioni e studi professionali locali. All’Ato di Caltanissetta partecipa un colosso straniero: la spagnola Aqualia. È ancora una volta Salàfia a spiegare la logica spartitoria: «Io progetto il servizio, io me lo realizzo, io me lo collaudo, io me lo gestisco e l’Europa mette i soldi». Insomma, tutto in famiglia. A una condizione: che solo il 30% dei lavori sia messo all’asta e il 70% sia gestito dalla società aggiudicataria. Un’anomalia, una violazione delle regole sulla concorrenza, che Antitrust e Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici non hanno mancato di rimarcare. Ad esse hanno fatto ricorso 13 Comuni della provincia di Palermo che hanno denunciato i rischi di irregolarità insiti in questo singolare “modello” di privatizzazione.«Girgenti Acque Spa – denuncia Giovanni Panepinto, combattivo sindaco di Bivona, in provincia di Agrigento – non ha fatto alcun bando per la manutenzione. Lavorano sempre i soli noti». Decine di imprese mafiose o affidate a prestanomi sono pronte a dividersi le risorse, confermano fonti della Dia (Direzione investigativa antimafia), che ha in corso diverse indagini.
Ancora più incisivo il sindaco di Caltavuturo, Domenico Giannòpolo, personaggio di spicco del Partito democratico in Sicilia, che ha guidato l’opposizione dei Comuni palermitani. «A giudicare dal modo in cui si sono svolte le gare - afferma – c’è il sospetto che vi siano state una spartizione e un’intermediazione affaristico-mafiose».Questo sistema per il momento ha avuto un effetto immediato sulle tasche dei cittadini: l’aumento delle tariffe. «Si rischia un’esplosione sociale», dichiara Antonella Leto, che segue l’intera vicenda per la Cgil siciliana. Con lei concordano altri sindacalisti, molti sindaci, politici di ogni schieramento e il Forum dell’acqua, una rete che organizza la mobilitazione popolare contro i programmi di privatizzazione del servizio idrico.Decine di sindaci non hanno consegnato le reti ai nuovi gestori e migliaia di cittadini, talvolta spalleggiati dagli stessi Comuni, fanno lo “sciopero” delle bollette. È successo per esempio a Cefalù, i cui abitanti hanno visto crescere in modo esponenziale il prezzo dell’acqua dopo l’entrata in funzione del potabilizzatore delle sorgenti di Presidiana realizzato da una società privata.L’opposizione politica alla privatizzazione è trasversale. Fabrizio Ardita, consigliere indipendente della Provincia di Siracusa, s’è schierato contro il suo ex partito, l’Udc. «L’affidamento – afferma – è stata una burla. Ha vinto l’unico soggetto che ha partecipato. Questo ambito è sempre stato gestito in modo anomalo. Sogeas, che già gestiva il servizio idrico, era presieduta fino a poco tempo fa da Franca Gianni, sorella di Pippo Gianni, ex deputato nazionale e regionale, attuale assessore regionale all’Industria. Oggi alla presidenza di Sogeas c’è Franco Risicato, ex segretario cittadino dell’Udc. Le anomalie nell’affidamento e altre stranezze amministrative, nonché il tentativo di costituire una società ad hoc per lucrare sulla privatizzazione, sono state denunciate all’autorità giudiziaria».A questa forma di resistenza civica, l’Arra (Agenzia regionale per i rifiuti e le acque) risponde con una sfida. «Le resistenze ci sono – ammette Marcello Lorìa, direttore del settore regolazione delle acque – ma ci sono contratti firmati e delibere delle conferenze dei sindaci. Se ci saranno danni per i gestori, se ne faranno carico coloro i quali ostacolano investimenti e sviluppo. Non dimentichiamo che chi ha vinto le gare aveva la possibilità di operare subito. Le cose stanno andando a rilento e qualcuno pagherà per questo».Per ora, però, a pagare i costi del disservizio idrico sono soltanto i siciliani. I cui rubinetti continuano a restare a secco in buona parte dell’Isola per la maggior parte della giornata.
Di Roberto Galullo e Giuseppe Oddo
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