Si racconta che quando era solo un alto funzionario del Partito Comunista in Georgia (all’epoca parte dell’Urss), osservando i delegati che lo salutavano con il pugno chiuso, Eduard Shevardnadze abbia esclamato: «Compagni, così non va! Avete tutti al braccio orologi di valore ben superiore ai vostri stipendi. Ciò vuol dire solo una cosa: qui c’è corruzione!». Forse le cose non andarono proprio così, ma sembra che proprio quella fama di incorruttibile giunse a Mosca e colpì Mikhail Gorbaciov, tanto da affidargli le redini della diplomazia sovietica da oltre vent’anni nelle mani dell’onnipotente Andrej Gromyko. Gorbaciov aveva infatti capito che, oltre che caratterizzare le riforme all’interno del blocco socialista, la Perestrojka doveva anche segnare il nuovo corso nelle relazioni internazionali. E per tali fini, serviva uno come Shevardnadze.
Una mossa coraggiosa, tipica del primo Gorbaciov: non fu tanto il pensionamento di Gromyko a destare scalpore, quanto la nomina a ministro degli Esteri di un georgiano, nazionalità invisa ai “puristi” russi all’interno del Pcus e ingombrante nei rapporti esteri, considerato che l’ultimo georgiano ad avere un ruolo così alto in Urss era stato Stalin.
Mossa ardita, ma indovinata: la competenza di Shevardnadze fu confermata negli storici accordi per il disarmo nati dai vertici bilaterali di fine anni Ottanta, lato vincente della Perestrojka, quello della politica estera. Da quell’utopistica e troppo ambiziosa stagione di riforme, Shevardnadze, al contrario dello stesso Gorbaciov, forse fu l’unico a uscirne vincitore. Forse perchè ebbe il coraggio di separarsi dal suo mentore ed amico quando capì che il suo passo a zigzag tra riformisti e conservatori stava portando la Perestrojka al fallimento: si dimise da ministro degli Esteri alla fine del 1990, quando l’Urss era entrata nel suo ultimo anno di vita, dissentendo dal potere che Gorbaciov aveva concesso alla vecchia guardia comunista. Venne sostituito dall’ apparatcik Aleksandr Bessmertnyk, grigio ambasciatore sovietico a Washington.
Dissolta l’Unione Sovietica, nel 1992 tornò in Georgia dopo la cacciata del dittatore Gamsakhurdia e ne divenne il presidente (verrà rieletto poi nel 1995 e nel 2000, con quasi l’80 per cento dei consensi). In quei difficilissimi anni Novanta, in cui per due volte scampò ad attentati terroristici, si trova a guidare un Paese afflitto dalla crisi economica e stretto nella morsa dei guerriglieri di Gamsakhurdia da una parte e degli indipendentisti filorussi dell’Abkhazia dall’altra: un fattore, quest’ultimo, che lo allontanerà da Mosca e lo avvicinerà agli Usa e alla Nato.
Per tutto ciò che aveva realizzato per la pace sia in epoca sovietica che dopo , l’Occidente avrebbe dovuto considerarsi in debito nei suoi confronti. Invece, con l’arrivo alla Casa Bianca di George W. Bush, Shevardnadze diventò un personaggio scomodo: poco incline al compromesso, venne ritenuto non affidabile dalla nuova Amministrazione statunitense, che gli preferì il giovane Mikheil Saakashvili, rampante avvocato laureato negli Usa e facilmente addomesticabile ai bisogni americani.
Nell’autunno 2003, con il pretesto di denunciare presunti brogli alle elezioni, gli uomini di Saakashvili scendono in piazza a Tbilisi: scoppia la cosiddetta Rivoluzione delle Rose, che si concretizza il 23 novembre con la presa del Parlamento e la cacciata di Shevardnadze, costretto letteralmente alla fuga dai rivoltosi mentre legge il suo intervento ai deputati.
Per il diplomatico della Perestrojka fu la fine ingloriosa di un’eccezionale carriera politica, anche se poi saranno in molti a rimpiangere le sue competenze in politica estera in contrapposizione all’ “avventurismo” di Saakashvili, culminato nel 2008 nel breve ma sanguinoso conflitto con Mosca, la più grave crisi militare tra Russia e Occidente dalla caduta del Muro.