Si scrive Adriatico, ma si potrebbe leggere Golfo Persico. La ricerca di idrocarburi nelle acque di quello un tempo era il confine marittimo della Cortina di ferro è infatti in costante crescita. Solo sul versante italiano si contano 107 piattaforme offshore dedicate all’estrazione di gas naturale – destinate ad aumentare grazie allo sviluppo dei giacimenti recentemente scoperti in Puglia – che attualmente coprono il 9,2% del fabbisogno nazionale di gas. Oltre ad essere un inesauribile fonte di polemiche sul tema dell’impatto ambientale.
La novità di oggi è che lo sfruttamento dei combustibili fossili racchiusi nei fondali marini non è più una prerogativa tutta italiana. Anche Albania, Croazia e Montenegro stanno avviando una serie di attività di ricerca e coltivazione dei depositi a largo delle proprie coste. Con possibili risvolti anche per l’Europa.
In Albania l’attività petrolifera ha una lunga storia: il bitume veniva estratto già in epoca romana. L’estrazione moderna è iniziata alla fine degli anni Venti durante l’occupazione italiana e ha toccato il suo apice intorno al 1970 con il contributo dell’ingegneria cinese, che consentì a Tirana di raggiungere una produzione pari a 43.000 b/g (barili al giorno). Pochi per diventare un produttore mondiale di rilievo, ma sufficienti per essere il primo limitatamente alla regione balcanica. Tuttavia, con lo strappo “strappo di Hoxha” del 1978, l’allora dittatore al potere decretò la fine di ogni alleanza internazionale dell’Albania e ci cinesi partirono per non tornare più. Da allora la produzione di oro nero è costantemente scesa fino a toccare il suo minimo storico nel 2004: appena 600 b/g.
Ora l’era petrolifera di Tirana sembra poter inaugurare un nuovo capitolo, come dettagliatamente illustrato da Balkanalisys già lo scorso anno. A partire dal 2009 gli investimenti privati nel settore del greggio hanno registrato una decisa impennata, da quando cioè sono iniziate le operazioni nel giacimento onshore di Patos Marinza, dove si pensa sia no custoditi più di 7,7 miliardi di barili. L’ultimo accordo di rilievo risale allo scorso 27 aprile, quando il ministero albanese dell’Economia e dell’Energia ha concluso un negoziato con la società San Leon Energy Plc. Investimento previsto: 250 milioni di dollari per i prossimi due anni. Tirana punta a raggiungere l’autosufficienza petrolifera entro i prossimi cinque anni, e c’è la possibilità che diventi esportatore netto almeno per un certo periodo. In Albania le royalties sono del 70% sui pozzi già avviati – alcuni risalenti alla Guerra Fredda e costellati di problemi strutturali – mentre ammontano appena al 10% sui pozzi nuovi pre-tasse, a cui si somma una tassa speciale del 50% sui profitti. Buona parte del petrolio albanese finirà nelle raffinerie d’Italia.
Fin qui i pro. I contro, invece, si annidano nella corruzione e nelle precarie condizioni socioeconomiche del Paese. L’Albania è solo al 69simo posto dell’indice di sviluppo umano dell’United Nations development programme. E l’eldorado petrolifera non ha finora contribuito a migliorare la situazione. Anzi, due anni fa ha addirittura rischiato di farla precipitare, è vero che è stato una delle cause principali dell’acuirsi delle tensioni tra il governo allora guidato da Sami Berisha ed opposizione capeggiata dal sindaco di Tirana Edi Rama (vincitore delle elezioni dello scorso giugno), poi riversatesi in duri scontri di piazza. Non dimentichiamo poi la dura coda polemica che è seguita alla privatizzazione della compagnia statale Albpetrol, voluta dal governo Berisha sul fiire del 2011 e contro cui Rama si scagliò con veemenza arrivando a definirla un “atto antinazionale”. La legge di vendita era stata varata poco prima che l’Autorità di controllo concedesse alla comagnia anche una licenza di esplorazione e ricerca nei fondali marini. Dopo due anni di polemiche, accuse e strumentalizzazioni a sfondo politico, in febbraio il ministro dell’Economia, Edmond Haxhinasto, ha dichiarato che il processo di privatizzazione si è concluso con un sostanziale fallimento.
Resta infine controversa la questione dei possibili legami tra le attività in corso a Patos Marinza e lo sciame sismico che interessa le città limitrofe da circa tre anni, per i quali la popolazione accusa senza mezzi termini la compagnia petrolifera canadese Bankers Petroleum, concessionaria del giacimento.
In Croazia, l’avvio della ricerca è stato annunciato lo scorso 2 luglio, all’indomani dell’ingresso ufficiale come 28esimo nell’Unione Europea. Dopo aver sposato entrambi i progetti TAP e South Stream per rafforzare la diversificazione delle forniture di gas, Zagabria punta ora ad implementare dello sfruttamento dei giacimenti ubicati a largo delle proprie coste. Secondo il Ministro dell’Economia, Ivan Vrdoljak, vi sarebbero circa 20 giacimenti in un’area di 2000 chilometri quadrati, che nei piani del governo dovrebbero garantire introiti per milioni di euro sotto forma di royalties già dal prossimo anno.
Il governo croato è ben consapevole che l’industria energetica del Paese goda di buone prospettive. In maggio, l’esecutivo ha proposto un ddl sugli idrocarburi che prevede una semplificazione delle procedure burocratiche necessarie per avere i permessi di ricerca e sfruttamento di idrocarburi offshore, nel presupposto che la vecchia legge non stimolava la ricerca di gas e petrolio. Ad oggi, infatti un investitore che potenzialmente trovi dei giacimenti non è automaticamente garantito anche il loro sfruttamento, ma c’è bisogno di una nuova gara.
Oltre che alla ricerca di gas lungo le coste e al suo futuro ruolo di corridoio di transito, la Croazia è impegnata in un altro progetto, destinato ad impreziosire il suo ruolo nello schacchiere energetico del Mediterraneo: la costruzione di un rigassificatore sull’isola di Krk (con il contributo del Qatar), che consentirà a Zagabria di importare sia il gas liquefatto da Doha che lo shale proveniente dagli USA da destinare poi al mercato europeo.
Infine, anche il Montenegro guarda con interesse ai (possibili?) giacimenti sottomarini.
Già in settembre il governo di Podgorica aveva indetto una gara d’appalto per lo sfruttamento del petrolio nazionale che però non è ancora stato scoperto, anche se la presenza di alcuni depositi di gas naturale lascia sperare nella analoga presenza di oro nero. La dimensione di ogni blocco è di circa 300 chilometri quadrati. Nella prima gara saranno pubblicati i bandi per 13 blocchi per una superficie totale di un massimo di 3.000 chilometri quadrati.
Allo stesso tempo, il governo ha adottato una politica fiscale per la produzione di petrolio e gas che garantisca un reddito stabile e congruo per lo Stato. Secondo le nuove norme, nelle casse pubbliche confluirà il 70% degli utili di compagnie che operano in questo business. La compensazione per il petrolio sarà progressiva, dal 5% al 12% della produzione, e la tassa extra profitto sarà del 59%. L’obiettivo, secondo il portavoce del Ministro dell’Economia, Vladan Dubljević, è quello di aspettarsi un cospicuo flusso di entrate a partire dal 2017.
In realtà, non è tutto rose e fiori.
In primo luogo, la gara d’appalto per le esplorazioni rientra nel quadro di un piano più ampio ufficialmente volto ad attrarre capitali stranieri, ma che in concreto si sostanzia nella progressiva svendita degli asset nazionali per risanare l’esangue bilancio del Paese.
In secondo luogo, se da un lato le autorità croate si sono dette disposte a collaborare nella ricerca e nello sfruttamento delle risorse sottomarine con quelle montenegrine, dall’altro non sono escluse future tensioni tra i due vicini, se davvero verrà confermata l’esistenza di un grosso giacimento di oro nero al largo della penisola di Prevlaka, la cui delimitazione marittima è tuttora contesa con Zagabria.
Tra luci e ombre, il settore energetico presenta interessanti prospettive in tutti e tre i Paesi esaminati. Anche l’Europa sembra interessata, e non soltanto per i volumi di idrocarburi che l’offshore dell’Adriatico potrebbe immettere sul mercato. Albania, Croazia e – benché in misura inferiore - il Montenegro interessano altresì come canali di transito.
Già in maggio i rispettivi governi - assieme all’Italia - avevano già firmato un protocollo d’intesa a sostegno del Gasdotto Trans Adriatico (TAP), il progetto di diversificazione delle forniture di gas nato in concorrenza con quello sponsorrizato dall’Unione, il Nabucco, e che ha praticamente indotto Bruxelles a rinunciare a questo. Per l’Europa, l’accantonamento del gasdotto di verdiana denominazione rappresenta una sconfitta; per i Paesi adriatici, invece, la TAP rappresenta una ghiotta opportunità di rilancio, a cui anche la famelica Bruxelles sembra ora strizzare l’occhio.
* Articolo originariamente comparso su The Fielder