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Lunedì 12 maggio il principale gruppo di opposizione armata operativo in Afghanistan – quello dei taliban – ha formalmente avviato l’offensiva di primavera; la tredicesima dall’inizio di un conflitto che lo vede contrapporsi al governo di Kabul e alle forze di sicurezza internazionali.
I taliban hanno dato il via alla periodica offensiva che segue la fine della raccolta di oppio e lo hanno fatto portando a termine una serie di attacchi spettacolari che, oltre ad attirare l’attenzione mediatica internazionale, hanno fatto registrare la morte di decine di persone.
Un aumento del livello di violenza complessivo che segue, in parallelo, il disimpegno delle truppe di combattimento internazionali e il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane (ANSF) che affronteranno “da sole” – sebbene con un supporto della NATO ancora ufficialmente da definire – la prossima stagione di combattimento contro i gruppi di opposizione armata, dei quali i taliban rappresentano solamente una parte.
Nel complesso, è prevedibile che l’insurrezione afghana aumenterà la pressione offensiva, e ciò avverrà in un momento particolarmente delicato per il futuro dell’Afghanistan poiché, oltre al disimpegno militare straniero, è l’anno delle elezioni presidenziali (con un secondo turno elettorale di ballottaggio nel mese di giugno ) che consegneranno al paese un nuovo presidente e un nuovo governo il cui primo atto sarà la necessaria ma sospesa formalizzazione dell’accordo di sicurezza bilaterale (BSA, Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti e lo Status of Forces Agreement (SOFA) con la NATO. Uno stallo formale di cui, al momento, beneficiano i gruppi di opposizione armata.
“Se gli invasori sono convinti che una riduzione delle truppe possa incidere sul fervore del jihad si sbagliano” – hanno sentenziato i taliban attraverso il sito web istituzionale dell’Emirato islamico Al-Emarah – “poiché i mujaheddin continueranno nel loro sforzo e utilizzeranno tecniche militari complesse nella fase condotta dell’offensiva di primavera”; aggiungendo che “il coinvolgimento dei civili sarà minimo”.
Le minacce non hanno tardato a trovare riscontro nella realtà.
Nel primo giorno dell’offensiva di primavera sono stati portati a termine numerosi attacchi, spettacolari e coordinati, su tutto il territorio afghano, in particolare nel sud e ad est, così come a Kabul e a Bagram; e l’attacco complesso contro la sede provinciale del ministero della Giustizia di Jalalabad è stato rivendicato dal portavoce ufficiale del movimento taliban, Zabihullah Mujahid, sfruttando i media internazionali. Attacchi finalizzati a dimostrare il basso livello di sicurezza nel paese e la debolezza di un governo afghano molto preoccupato dal disimpegno delle forze internazionali entro la fine dell’anno. E così, posti di controllo, caserme della polizia, edifici governativi, sono stati gli obiettivi designati della violenta offensiva insurrezionale; un’offensiva efficace, certamente dal punto di vista mediatico e con effetti diretti sul morale delle forze di sicurezza afghane, preoccupate di dover gestire un Afghanistan tutt’altro che stabilizzato.
Il livello del conflitto continua a essere in fase di sviluppo progressivo, in particolare nelle aree lasciate dai contingenti militari internazionali dove i gruppi di opposizione armata hanno aumentato la pressione contro le uniche forze di sicurezza rimaste sul terreno: quelle afghane. E l’andamento generale conferma una sostanziale incapacità di mantenere sicura la periferia. Un’incapacità resa ancora più gravosa dallo stallo formale relativo al BSA di cui si è fatto cenno; Hamid Karzai, che si è rifiutato di firmare l’accordo con gli Stati Uniti (e dunque la NATO) per la concessione a lungo termine di basi militari a Washington, ha demandato la decisione al suo successore.
Entrambi i candidati ammessi al ballottaggio, Abdullah e Ghani, hanno manifestato l’intenzione di firmare tale accordo, ma ciò non avverrà prima di alcuni mesi, verosimilmente tra la fine dell’estate e l’inizio del prossimo autunno; evidenti le difficoltà formali a cui dovrà andare incontro la macchina militare e logistica della NATO per riuscire a riformulare nella sostanza il proprio impegno futuro in Afghanistan (per un approfondimento si rimanda a “Osservatorio Strategico - Prospettive Generali 2014”, CeMiSS).
Breve analisi conclusiva
In passato, l’offensiva di primavera ha rappresentato per i taliban l’occasione per riprendere l’iniziativa sul campo di battaglia contro le forze governative e le truppe della NATO dopo la stasi invernale. Ma negli ultimi anni i ritmi della guerra sono mutati; se all’inizio del conflitto i taliban – e tutti gli altri gruppi di opposizione armata – trovavano rifugio all’interno delle regioni ad amministrazione tribale del Pakistan, con l’evolversi del conflitto e con la sempre più capillare ed estesa presenza dei mujaheddin all’interno dello stesso Afghanistan ciò si è reso non più strettamente necessario; questo ha portato alla disponibilità di unità combattenti spendibili anche nei mesi invernali. Infatti, le azioni offensive dei gruppi di opposizione armata sono state registrate senza soluzione di continuità anche durante la stagione invernale, raggiungendo l’apice in occasione del primo turno delle elezioni presidenziali (5 aprile 2014).
E se le seppur significative azioni dei taliban in occasione delle elezioni hanno contribuito al generale livello di insicurezza (ma meno di quanto era stato previsto), non da meno sarà il ruolo dell’opposizione armata nell’influenzare il secondo turno del processo elettorale e l’avvio dell’azione di governo del successore di Karzai.
Inoltre, l’offensiva di primavera si impone come minaccia sostanziale alla sicurezza di un Afghanistan che dovrà essere garantita sul terreno delle sole forze di Kabul; e ciò avverrà nella sostanza già a partire dal mese di agosto.
Tutti fattori, quelli elencati, che contribuiranno a rendere più complesso e gravoso sul piano logistico ed economico il disimpegno della Comunità internazionale, e dunque anche dell’Italia, da un Afghanistan che si affaccia a una nuova stagione di conflittualità e dinamiche estremamente variabili a cui la NATO andrà incontro dando il via alla nuova missione “Resolute Support Mission”. Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad).
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa).
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita.
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica. scarica l'articolo completo
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