di Silvano Andriani da hormozud.comunita.unita.it
E così due famose Agenzie di rating, Moody’s e Fitch, che solo pochi giorni fa avevano valutato in modo decisamente negativo la situazione italiana, e lo avevano fatto in un momento molto delicato della trattativa europea al punto da indurre addirittura qualche procuratore ad indagare per complotto, ora intravedono per l’Italia la luce in fondo al tunnel. Lasciamo perdere le dietrologie e proviamo a capire le motivazioni di questo repentino cambiamento.
Si può dire che ciò che rende le Agenzie più fiduciose è la politica del governo Monti, ma essa, comunque la si giudichi, è entrata in azione molti mesi fa e non negli ultimi venti giorni. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, ma proviamo a seguire il loro ragionamento. Moody’s fa un parallelo fra la crisi attuale di alcuni Paesi dell’area euro e quella che colpì i Paesi scandinavi all’inizio degli anni ’90. E assimila la situazione italiana a quella della Svezia di allora, che ebbe la più rapida uscita dalla crisi. È bene precisare che, secondo questa visione «ottimistica», l’anno prossimo la crescita dell’economia italiana dovrebbe attestarsi tra zero e meno 0,5%. Il riferimento alla Svezia ci dice che ci risiamo con la famosa teoria della «contrazione espansiva». Ed in effetti il caso svedese è uno dei pochi, secondo recenti ricerche, nei quali alla contrazione derivante dall’austerità ha fatto seguito un’espansione economica.
Quelle ricerche ci dicono anche che la performance svedese è stata resa possibile da tre condizioni: il Paese disponeva di una moneta propria che ha potuto svalutare per favorire le esportazioni; aveva una struttura produttiva in grado di usufruire rapidamente del vantaggio della svalutazione; l’economia mondiale era in decisa crescita ed ha favorito il rilancio delle esportazioni. Di quelle condizioni l’Italia ne soddisfa solo una: una industria manifatturiera capace di esportare, ma non ha una moneta da svalutare per guadagnare competitività.
Quanto all’economia mondiale qui sta succedendo il contrario: allora la ripresa di un piccolo Paese come la Svezia fu trainata dalla crescita dell’economia mondiale, ora la tendenza recessiva dell’Unione europea sta attirando l’intera economia mondiale in una fase di rallentamento. Il governo Usa sta reagendo mantenendo ancora abbastanza elevata la domanda pubblica, quello cinese con un nuovo piano di rilancio della spesa pubblica in infrastrutture, mentre in Europa Paesi con attivi di bilancia dei pagamenti relativamente più alti di quello della Cina, Germania ed Olanda, seguono anch’essi politiche di austerità: nessuna meraviglia che l’Europa vada male. D’altro canto è impossibile separare le previsioni per l’Italia da quelle per altri Paesi europei, tipo Grecia o Spagna, e questo anche Moody’s e Fitch dovrebbero saperlo. Quanto a Fitch il problema principale sarebbe il dopo Monti e il rischio che si rompa la continuità. Manca solo che ci dica quale maggioranza e quale governo formare dopo le elezioni.
Ma, leggendo tra le righe, si può trarre qualche indicazione. Nei giorni scorsi, mentre infuriava la polemica fra Draghi e la Bundesbank, alcuni giornali ci hanno spiegato come Draghi stia preparando una «road map» che, partendo dalla soluzione del problema degli spread e passando per l’unificazione bancaria e poi per l’unificazione fiscale, dovrebbe approdare all’unità politica dell’Europa. E questa veniva considerata una buona notizia. Ora, a parte la veridicità di quella notizia ed il fatto che su ciascuno dei passaggi esistono visioni diverse e contrapposte, è singolare che si ritenga normale che a tracciare la via per l’unità politica dell’Unione sia la Bce e non forze politiche, parlamenti nazionali e parlamento europeo. È bene ricordare che la delega alle banche centrali dell’intera politica macroeconomica fu un corollario del pensiero unico e che «regolare sistemi finanziari guidati dai mercati» ha cambiato sostanzialmente il ruolo delle banche centrali, come avevano sostenuto già nel 1994 Padoa-Schioppa e Saccomanni. Esse, ce lo dice l’esperienza successiva, hanno una responsabilità primaria nello scoppio della crisi e non solo la Fed di Greenspan, che ad intermittenza ora fa autocritica, ma anche la Bce che ha assistito impassibile al formarsi nell’area euro di enormi squilibri destinati inevitabilmente a minare la stabilità dei mercati finanziari.
Il paradosso è che adesso, anziché assistere ad una riappropriazione del proprio ruolo da parte della politica, assistiamo alla tendenza di banche centrali ed agenzie di rating di intervenire nelle decisioni politiche. Il principale problema della agenzie di rating, e non solo, è che continuano a leggere la realtà con gli occhi del pensiero unico, quelli che ci hanno guidato verso la crisi. Pensare poi di affidare ad organismi tecnici un ruolo di supplenza dell’incapacità della politica di offrire una visione concordata della nuova Europa tale da mobilitare il consenso degli elettori potrebbe confermare l’opinione dei critici che vedono nell’Unione europea una struttura sostanzialmente tecnocratica e, soprattutto, potrebbe rivelarsi una grande illusione.
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