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Agnese

Da Marcofre

Il sesto racconto breve: Agnese.

Buona lettura

Agnese

Cade una pioggia regolare, anzi ordinata, senza una bava di vento, che la pieghi a colpire le mani, il corpo delle poche persone in giro. Sulla strada che conduce verso il centro cittadino, passano poche automobili, precedono l’autobus con una manciata di passeggeri a bordo. Il solo rumore che si ode, oltre a quello delle gocce della pioggia, è il mormorio dell’acqua che scivola verso i tombini, ci precipita dentro con un gorgoglio monotono.

C’è un grosso ombrello nero, e sotto una bambina; attraversa la strada sulle strisce pedonali, percorre il marciapiede di via Amendola che costeggia il piccolo giardino pubblico, un po’ in pendenza perché quella zona della città è così. Sono le cinque della sera, ma a dicembre è già buio, e c’è un uomo. Lei guarda solo dove mettere i piedi; però vede anche che l’uomo ha cambiato direzione, e viene verso di lei. Ha una tuta grigia, il cappuccio calato sul volto impedisce di scorgerne le fattezze; taglia per la piccola aiuola, e in un attimo le è accanto.

Non può accaderle niente di male se non rivolge lo sguardo agli sconosciuti, se non dà confidenza a chi cerca di conquistarla, per fare chissà cosa.

- Ce l’hai un Euro?

Una voce bassa e roca, un fiato di vino. Agnese ha un sussulto; getta lontano da sé l’ombrello, e corre via.

- Ho perso il portafoglio. Ce l’hai un Euro?

Percorre furibonda la breve salita, oltrepassa l’ufficio postale chiuso. Pensa: dovrei liberarmi dello zaino che pesa, mi rallenta, forse quell’uomo mi ha raggiunta, e sta per bloccarmi.

Gira a destra, e con la corda dell’occhio si rende conto che nessuno la segue.

Prende dalla tasca dei jeans il portachiavi, le cade per terra, si ferma, torna indietro di pochi passi, lo afferra con rabbia, grattando l’asfalto con le piccole unghie. Le dita bagnate sgranano il mazzo, trova quella giusta, e la infila nella toppa del portone, la ruota, apre, e si lancia su per la scala. Al primo piano, finalmente la casa.

Apre la porta blindata, sbattendo le scarpe da ginnastica sullo zerbino, se lo fa è perché la paura sta passando, riappare la lucidità; la chiude alle sue spalle e si libera dello zaino facendolo cadere sul pavimento con un tonfo sordo.

Appoggia la schiena alla porta, poi l’orecchio per sentire se qualcuno sale le scale: silenzio.

Decide di restare al buio. Forse nessuno l’ha seguita, ma magari quell’uomo è giù sul marciapiede, scruta le finestre per vedere quale sarà illuminata. Il male è imprevedibile, arriva d’un tratto: ora sei felice, e un attimo dopo non c’è più nulla, solo ricordi.

Rabbrividisce; si passa le mani sul viso bagnato, sui capelli, il sangue pulsa nelle vene delle tempie. Attende qualche istante, e il respiro abbassa la sua frenesia, torna più regolare.

Si toglie le scarpe e mette le pantofole. In bagno, prima si lava le mani, poi si muove nella cameretta, prende le sue cose pulite, piegate, torna in bagno e si fa una doccia. Sempre al buio; una debole luce filtra dalla tapparella abbassata, è meglio risparmiare, tanto deve lavarsi, mica altro.

Si asciuga i capelli neri, lunghi, e verso la fine, quando verifica l’asciugatura, preme l’interruttore che illumina la cornice dello specchio.

Mostra più degli otto anni che ha; se una volta non vedeva l’ora di crescere, adesso non ne ha più molta voglia.

In cucina, al buio, si avvicina alla porta finestra, e senza scostare le tendine osserva il marciapiede, la strada; continua a cadere la solita pioggia scrupolosa. Le luci della via danno alla facciata del palazzo di fronte un aspetto desolato, non solo perché l’inverno è alle porte.

Non c’è nessuno davanti al cancello aperto che conduce al condominio; ma è meglio essere prudenti ancora per un po’. Torna in corridoio, prende lo zaino, e si sposta nella sua camera. Estrae libri, quaderni, abbassa lentamente la tapparella, e accende la lampada della scrivania. Studia per un’ora. Di tanto in tanto alza lo sguardo, interrompe il flusso di frasi che costruiscono il compito di domani.

Pupazzi, foto, altri libri e quaderni. Poster che osserva senza interesse, nemmeno sa dire perché sino a poco prima, riuscisse a entusiasmarsi per quei tipi raffigurati a brandire chitarre, a interrogare il mondo con quello sguardo truce, un po’ scemo. E neppure riuscirebbe a spiegare perché allora, non se ne libera.

Agnese ha freddo, sfrega i piedi uno sull’altro, anche le mani; ai primi ha messo pesanti calzini di lana, grigi, per le seconde sta pensando a un paio di guanti. Ma preferisce restare concentrata sulla lezione; che cosa sarà mai, un po’ di freddo. Osserva l’ora scandita da un orologio al quarzo incastonato dentro la sagoma di una mucca colorata; presto arriverà la mamma. Non è il caso di accendere la caldaia. Basta andare a letto presto, e si risparmiano un mucchio di soldi.

Bisogna fare attenzione a ogni cosa: chi si incontra, cosa si mette in funzione.

In cucina, beve un bicchiere d’acqua, abbassa la tapparella, infine accende la luce. Osserva il piccolo divano marrone, si avvicina, chiude gli occhi e si siede.

Eccolo: il magone. Non può fare a meno di agire in quella maniera, ogni tanto: sedere in quel posto, sul divano. Vorrebbe essere forte perché adesso a lei è richiesto quello, come a sua madre: essere forte. E’ una frase che ha sentito un’infinità di volte, modulata da voci di ogni tipo, di parenti, conoscenti, amici e amiche.

Respira profondamente, cerca di ricacciare in gola quel peso che preme, ma non ci riesce. Apre infine la bocca e lo espelle, ed emette un suono strozzato, un lamento, mentre gli occhi neri, si inumidiscono.

Piange, finalmente.

Sino a sei mesi prima quello era il posto dove sedeva suo padre, la sera. Lei arrivava, lui era lì ad attenderla. Un infarto lo ha sorpreso sulla soglia dei 46 anni. E le pare, che nel tessuto dello schienale, ci sia ancora qualcosa di lui, il calore, la forza delle sue braccia quando la stringeva; per questa ragione evita di sedercisi troppo spesso. Teme che si disperda; piange più forte.

Crede di avere compreso cosa significhi “essere forti”: non ci aveva mai pensato prima, ma è un modo per dire: “arrangiantevi, non contate mai su di noi”.

Dopo la morte del padre, sono rimaste sole. Per fortuna sua madre ha trovato un lavoro, grazie a preti, e amici. I parenti affermavano che erano fortunate, presto avrebbero avuto una specie di pensione, e poi possedevano pure un’automobile, la casa anche se in affitto l’avevano, cosa mancava?

Squilla il cellulare, Agnese sgrana gli occhi arrossati di pianto, corre in camera, e risponde. E’ sua madre.

- Sto arrivando amore, – dice, – tutto bene?

Agnese si morde il labbro inferiore, risponde:

- Ho perso l’ombrello.

- Cosa? Agnese, – prosegue, – come riesci a…

- Mi spiace -. Mormora, e sente una fitta allo stomaco. Ha il sospetto di essere molto stupida, a volte.

- Fa niente, arrivo tra dieci minuti -. Ha il fiatone, probabilmente sta percorrendo la scalinata che costeggia la scuola privata delle suore.

Fa le pulizie per 800 Euro al mese, ed è pure in regola, sul libro paga di una piccola cooperativa cittadina; un colpo di fortuna non da poco. I suoi clienti sono incapaci donne piene di soldi che non sanno fare nemmeno un po’ di ordine nelle loro abitazioni da 150 metri quadrati: come minimo. Per questo, probabilmente, si possono permettere mostre d’arte e teatro, e viaggi alla ricerca di sé, a zonzo per il mondo.

- Scusa -. Dice ancora la bambina; ma ormai la conversazione è chiusa.

Agnese abbassa il capo, e col telefonino in mano torna in cucina. Lo posa sulla credenza, sospira, dovrebbe sciacquarsi la faccia; invece prende bicchieri, posate, piatti, e apparecchia. Dal frigorifero recupera del prosciutto, un paio di mozzarelle, un po’ di verdura. Mette sul fuoco una pentola piena d’acqua, aggiunge il sale; pasta in bianco, fusilli per esempio, con l’aggiunta di un poco di burro, unita a quel poco che c’è rimasto del giorno prima, ecco la cena.

Fa freddo, bisogna sbrigarsi a cenare, poi un’altra ora sui libri per il ripasso, niente televisione, prima di tutto perché non c’è niente, poi perché non sembra, ma è uno spreco.

Sente la serratura della porta che si apre:

- Sono io.

Agnese corre in corridoio, il sorriso le si spegne quasi subito.

- Che cos’è questo? -. Le domanda la madre, brandendo un ombrello scuro.

La bambina non risponde; abbassa il capo.

- Era su una panchina dei giardini qui vicino, chiuso -. Continua la donna; non è arrabbiata, almeno non ancora. Forse perplessa da un tratto di condotta della figlia, ligia e scrupolosa, che non si aspettava.

- Quell’uomo mi ha spaventato.

- Chi? -. Lascia cadere sul pavimento quello che tiene in mano: ombrelli, borsa della spesa e borsa in pelle, si inginocchia e tira a sé la figlia.

- Che uomo?

- Mi ha chiesto se avevo un Euro, ho avuto paura e sono scappata. L’ombrello l’ho buttato perché non mi faceva correre. Non si scappa veloci con quello, e già avevo lo zaino.

Caterina abbraccia la figlia, chiude gli occhi:

- Non ti ha fatto nulla? Non ti ha fatto nulla? -. Chiede, in una stretta che quasi la soffoca.

- Mamma, io so correre veloce.

La stacca da sé, le passa la mano umida sul viso un po’ pallido, magro, dice:

- Dopo cena, chiamo quelli del doposcuola. Da domani ti accompagneranno a casa -. Preme le labbra sulla fronte della figlia:

- Ma tu hai freddo -. Si alza in piedi.

Agnese prende la borsa della spesa:

- Sta passando, davvero.

Dopo la cena, e la telefonata, Agnese porta i libri in cucina, per terminare i pochi compiti per il giorno dopo. Caterina rammenda una tovaglia, poi prende un libro, lo apre e sfila il segnalibro.

Dice:

- Se c’è qualcosa che non capisci, dimmelo.

Agnese annuisce.

- Il tuo amichetto sta bene?

La bambina arrossisce, non risponde; sorride appena. Ha il medesimo taglio delle labbra della madre. Una bella donna di 43 anni, lunghi capelli neri, dove il bianco si è insediato con discrezione.

- Hai ragione, – dice la madre, dopo pochi istanti, – devi studiare, e io ti disturbo con la mia sciocca curiosità.

- Mamma, se Dio è buono, perché papà è morto? -. Domanda all’improvviso.

La donna solleva sorpresa gli occhi dalle pagine, fissa la figlia:

- Non fa parte della lezione di domani questa, vero?

- Ho finito -. Chiude il libro e il quaderno. Poi intreccia le dita delle mani sul piano del tavolo; benché piccole, i pollici hanno la stessa conformazione, lunghi, quasi slanciati, del padre. Le sue mani, quando la stringevano, scivolavano sulla schiena, sulla pancia.

Caterina sospira, percepisce l’appetito che quella morte ha condannato a non essere più soddisfatto; almeno per molto tempo.

Dice:

- Forse, ci vuole mettere alla prova.

- Siamo cavie? -. Chiede Agnese.

La madre sorride: spalanca un po’ i grandi occhi luminosi, non hanno perso la loro bellezza; incrocia le braccia sul petto.

- Non lo so Agnese. Per adesso, pensiamo a cavarcela.

La bambina si alza da sedere, le si avvicina:

- Ce la faremo, vero?

- Sì -. La tira a sé, l’abbraccia. Chiude gli occhi e appoggia la guancia sinistra sui capelli della figlia.

- Questi capelli, questi capelli, – dice, – non dovremmo tagliarli un po’? -. E aggiunge:

- Te lo prometto, ce la faremo.

Agnese si stringe alla madre con tutte le sue forze; sotto la maglia, la camicia, il seno, sente il cuore battere.

Le si inumidiscono gli occhi. E’ il solo abbraccio che le è rimasto.


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