Agricoltura: un futuro senza speculazioni?
Sull’onda delle pressioni dell’opinione pubblica, quattro banche tedesche e una austriaca decidono di disinvestire dal settore delle commodity agricole. Gli analisti concordano: «È un primo passo verso mercati più etici». E la loro scelta apre un dibattito sul ruolo degli speculatori nella volatilità dei prezzi.
Per le speculazioni sulle commodity agricole, la prossima potrebbe essere una stagione autunnoinverno da ricordare. A voler essere pessimisti, la siccità che ha colpito i maggiori esportatori mondiali potrebbe ricreare le condizioni ideali per una fiammata dei prezzi agroalimentari, un po’ come accadde a cavallo tra 2007 e 2008. Ci sono però segnali incoraggianti che, in senso diametralmente opposto, potrebbero preludere a una (lenta) riduzione della morsa speculativa sulle materie prime alimentari.
Deutsche Bank e le altre
A far ben sperare sono le notizie provenienti dalla Germania e dall’Austria, dove cinque importanti istituti di credito hanno deciso di cancellare o ridurre la loro esposizione nel settore. A marzo la Deutsche Bank, uno dei massimi operatori mondiali (3,8 miliardi di dollari di contratti a fine 2010), ha deciso di non emettere nuovi Etf (Exchange traded fund) sulle materie prime alimentari.
All’inizio dell’estate sono seguiti gli annunci di Commerzbank (niente più prodotti agricoli dal proprio fondo ComStage Commodity Etf), di DekaBank e della Banca regionale del Baden-Württemberg, che hanno abbandonato gli investimenti in soia, mais e grano. Ad agosto l’onda lunga ha poi superato i confini tedeschi, spingendo anche l’austriaca Volksbanken a prendere la stessa decisione.
Certo, c’è sempre chi, come l’ultimo soldato giapponese, si rifiuta di capitolare: le banche svizzere Credit Suisse, Sarasin e Ubs hanno detto che mai e poi mai seguiranno l’esempio teutonico perché il loro lavoro non incide sui prezzi agricoli. Eppure il segnale che si percepisce è quello di un cambio del vento.
Simbolico, più che effettivo, per ora. Ma che permette di approfondire con maggiore obiettività il ruolo della speculazione finanziaria in agricoltura e di ragionare sui possibili strumenti per arginare un fenomeno che negli anni ha assunto dimensioni impressionanti: in cinque anni, tra il 2006 e il 2011, gli asset finanziari sul cibo sono cresciuti da 65 a 126 miliardi di dollari. Il 62% del mercato dei cereali è ormai sotto il controllo degli speculatori finanziari: nel 1996 era appena il 12%.
Intanto in Italia…
Gli istituti di credito italiani da parte loro non sono estranei al meccanismo speculativo. «Unicredit, tramite Pioneer Investments, colloca il fondo Hedge Commodities Alpha, con un patrimonio di oltre 600 milioni di euro, investiti per oltre il 26% in granaglie, il 18% in soft commodity agricole, il 6,2% in bestiame e il 3,5% in oli vegetali», spiega Antonio Tricarico, coordinatore della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, che ha contribuito a scrivere il rapporto Farming Money.
C’è poi Intesa San Paolo con i suoi 73 fondi, molti dei quali investono negli Etf. Fonditalia di Banca Fideuram è esposta per 50 milioni di euro nel fondo Etfs All Commodities. Generali predilige, invece, l’accaparramento di terre, come l’acquisto di 5.500 ettari in Romania attraverso Genagricola Spa, che ha provocato un rilevante aumento dei prezzi della terra. «La loro esposizione è sicuramente minore – osserva Tricarico – ma le banche italiane hanno seguito in maniera passiva il trend iniziato dagli investitori americani e inglesi».
Scommettere sulle carestie
Ma quanto davvero incide la speculazione sulle fiammate dei prezzi alimentari? «Il mondo deve guardare con durezza alla speculazione sui mercati finanziari e al suo potenziale impatto sulla volatilità dei prezzi alimentari, che si ripercuote sui consumatori e produttori più poveri in tutto il mondo», ha tuonato un paio di mesi fa il direttore generale della Fao, José Graziano da Silva. Posizione condivisa da Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia. Non a caso il prossimo Salone del Gusto/Terra Madre in programma a fine ottobre a Torino si occuperà su più fronti delle speculazioni su terra e materie prime: «Se diamo un valore finanziario alle risorse naturali, estendiamo logiche di mercato alla natura.
Trasformiamo un bene comune, da utilizzare e gestire in modo sostenibile, in una commodity per produrre profitto privato». Un fenomeno nato a seguito dell’esplosione della bolla dei mutui subprime nel mercato immobiliare Usa. «In coincidenza con quell’evento nel 2008 – spiega Dario Casati, prorettore della Statale di Milano e docente di Economia agraria – gli investitori sono stati spinti a cercare nuovi settori, che dessero ritorni immediati. Grazie alla deregulation Usa che dal 2003 aveva cancellato le norme che legavano i contratti a termine con il volume del prodotto fisico, si sono spalancate le porte alla speculazione su grano, mais e altri beni agricoli».
Tutti gli addetti ai lavori, anche se in misure diverse, ammettono l’impatto sulla volatilità dei prezzi: «La speculazione non è la causa prima dell’aumento dei prezzi, ma butta benzina sul fuoco quando s’intravede le possibilità di una loro oscillazione», spiega Alessandro Politano, economista alla facoltà di Agraria di Bologna. «Temo – aggiunge invece Casati – che le oscillazioni continueranno e forse cresceranno non tanto per interventi speculativi, ma perché nei prossimi anni aumenterà il divario tra offerta di beni agricoli e domanda, a causa del cambio di abitudini alimentari dei Paesi in via di sviluppo».
Unanime è comunque il plauso alla scelta di alcune banche di uscire dal mercato delle commodityagricole: «Il significato simbolico e culturale è innegabile», commenta Casati. «È un invito a introdurre elementi di maggiore eticità nel mercato e a tornare all’economia reale». «Scommettere su qualcosa che può provocare carestie e morti non dovrebbe essere permesso in un Paese evoluto», aggiunge Politano.
Come intervenire?
Gli strumenti per incentivare questo passaggio sono però tutti da scoprire. Le soluzioni possibili sarebbero in teoria numerose: «Si può pensare – suggerisce Politano – di porre un limite al volume della speculazione rispetto alle attività di copertura. O rendere obbligatoria la consegna fisica di una parte della merce acquistata. E bisogna valutare l’opportunità di ricostituire gli stock di materie prime da usare in funzione calmieratrice nelle annate di produzione scarsa: stabilizzando i prezzi si ridurrebbero anche i margini di speculazione. E, infine, sarebbe il caso di introdurre dei sistemi premianti per gli investitori che scelgono forme di investimento più etiche, alla stregua di quanto avviene per la riconversione industriale».
«Idee belle ed efficaci – secondo Tricarico di Crbm – ma ho paura che introdurle richiederebbe una regolamentazione difficile da approvare, per mancanza di volontà politica. In Europa manca un blocco di Paesi che riesca a scalfire l’ostruzionismo inglese, pressato dalla potente City londinese. Forse la soluzione più percorribile è il semplice divieto per alcuni tipi di Etf sui prodotti agricoli».
Più scettico Casati: «Temo che gli interventi normativi anti-speculazione su questi prodotti finanziari siano controproducenti. Si rischia di creare fenomeni di accaparramento e mercato nero. E anche l’uso degli stock non ha mai davvero dimostrato effettive capacità di stabilizzare i mercati. Credo più in strumenti di sostegno in funzione anticiclica che intervengano con meccanismi di sovvenzione quando i prezzi scendono e rendono antieconomico coltivare i terreni. Un modo per ridurre il gap tra domanda e offerta di beni alimentari».
L’EUROPA CHE SPECULA SULLA FAME
BELGIO
Due i gruppi coinvolti nelle speculazioni sui prodotti agricoli: Dexia SA gestisce quasi 60 milioni di dollari con il Dexia Fund Commodities e ha lanciato un nuovo fondo nel maggio 2011 (il Cordius Long Short Commodities). Il gruppo bancario e assicurativo Kbc Group Nv elenca invece 567 milioni di euro in commodity: sotto accusa il Kbc Eco Fund Agri, che investe nell’agrobusiness, le compagnie Black Earth Farming Ltd e Trigon Agri A/S che acquistano terra nella Russia meridionale e la Ktg Agrar Ag Br, che invece compra terra in Germania dell’Est e Lituania (finora 30 mila ettari).
DANIMARCA
Il maggiore investitore del Paese, Nordea, da un anno ha destinato 80 milioni di euro al fondo Mf Råvarer (soia, zucchero, nickel e rame) e altri 58 all’Mf Bløde Råvarer (soia, zucchero, grano, mais, caffè, cacao, caffè e cotone). Nelle commodity agricole investono anche la Danske Bank (28 milioni di euro), la Jyske Bank, (9 milioni nel JB Råvarer 2013, dedicato a petrolio, rame e soia). Molto aggressiva la Saxo Bank, che commercia commodity future per 600 milioni di euro. Il suo analista capo si è detto consapevole delle gravi conseguenze delle fluttuazioni dei prezzi sulle popolazioni del Terzo mondo. Ma ha aggiunto che l’eventuale uscita della banca dal settore non farebbe la differenza, perché il suo posto sarebbe preso da altri operatori.
FRANCIA
La Bnp Paribas è tra le banche mondiali più attive nel commercio dei derivati su commodity e conta di raddoppiare i ricavi nel settore entro i prossimi tre anni. Gli attuali ricavi annui ammontano a 500 milioni di dollari. L’esposizione su commodity agricole – pari a 648 milioni di euro – corrisponde all’8% dell’esposizione totale. Da segnalare anche il gruppo Axa, sesto gestore mondiale di patrimoni, coinvolto in numerosi Etf e proprietario di quote per 1,25 miliardi di dollari della compagnia mineraria Vedanta Resources, accusata di land grabbing in India a danno delle popolazioni locali.
GERMANIA
Dopo le decisioni prese da Commerzbank, DekaBank, Deutsche Bank e Lbbw, gli occhi sono ora puntati sul colosso Allianz Se e sulle sue sussidiarie che si occupano di gestione patrimoniale. La Pimco ad esempio ha raddoppiato nel 2011 gli investimenti in commodity (30 miliardi di dollari rispetto ai 15 del 2008). Nel settore è coinvolta anche la Munich Re e il suo ramo retail Meag, esposto per 764 milioni nel 2010.
REGNO UNITO
Barclays Plc, Hsbc, Lloyds Banking Group, Rbs-Royal Bank of Scotland sono gli istituti più esposti. Barclays – terzo gruppo bancario mondiale – è considerato anche il terzo più grande attore nel mercato delle commodity. Hbsc è più coinvolto nel mercato dei metalli che in quello del cibo, con una politica molto aggressiva soprattutto fuori dai confini europei, ad esempio con l’Hsbc Broking Services Asia. Rbs offre ai propri investitori almeno cinquanta prodotti specializzati sui prodotti agricoli.
OLANDA
I fondi pensioni olandesi sono fortemente impegnati nel settore. Tra i più importanti lo Stichting Pensioenfonds Abp e Ppmg. Secondo il rapporto annuale 2010, il valore delle commodity ammonta a circa 8 miliardi (erano 6 miliardi l’anno prima). Gli investimenti in titoli agricoli sono calcolati in 1,6 miliardi. Esposte con gli agroderivati anche la Rabobank (608 milioni di euro) e il gruppo Ing (40 milioni) che si è impegnato a prendere misure adeguate se e quando sarà dimostrato che tali investimenti agevolano la crescita e la volatilità dei prezzi.
SPAGNA
Secondo l’Annual Report interno, il Gruppo Santander è esposto sul settore commodity per 252 milioni ma non si sa su quali materie prime abbia investito. Nel Paese opera anche il Banco Bbva che ha aggiunto un fondo ad hoc nel maggio 2010. Il suo Quality Commodities Fi ha un volume d’affari di circa 7 milioni e il suo portafoglio include il DJ UBS commodity Tr che è costituito per il 34% da investimenti in materie prime agricole.
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