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Akaboshi (あかぼし, Akaboshi). Regia, soggetto e sceneggiatura: Yoshino Ryōhei. Fotografia (colore): Hirai Eijiro, Inoue Rui, Scenografia: Hanari Satomi. Musica: Sato Mieko. Suono: Fujiwara Natsumi. Interpreti: Park Romi, Aren Vlada, Kazuyuki Kujirai, Kobayashi Kinako. Produzione: Yoshino Ryōhei. Durata: 140’. Prima proiezione in Giappone: 23 0ttobre 2102, Tokyo International Film Festival.
Link: Intervista al regista di Nicholas Vroman
Punteggio ★★★★
Presentato all’ultimo Tokyo Film Festival e diretto dal giovane Yoshino Ryūhei, già autore di premiati cortometraggi, Akaboshi – film come vedremo di sguardi e sorrisi – è uno degli esordi più accattivanti del cinema giapponese di questi ultimi anni.
L’intreccio verte su una donna, Sonobe Yoshiko (interpretata da Park Romi, un’attrice di origini coreane assai nota in patria come doppiatrice di anime di successo), che dopo il suicidio del marito trova rifugio e sollievo in un’organizzazione religiosa denominata «Akaboshi» («la stella che orienta»). Poco alla volta la donna fa del proselitismo la sua unica ragione di vita e vi trascina a tutta forza anche il figlio decenne, Tamotsu, il quale, vessato a scuola dai compagni a causa del suicidio paterno, si ritrova presto costretto ad indossare i panni di un adulto. Dopo un violento litigio con la madre, deciderà di fuggire insieme a Kanon, un’adolescente che si prostituisce part-time, salvo poi cambiare idea all’ultimo momento e tornare dalla madre.
Il fenomeno delle nuove religioni, il bullismo scolastico, l’enjo kōsai (la prostituzione delle studentesse), i bambini costretti a frasi prematuramente degli adulti, sono tutti temi assai frequenti nel cinema giapponese contemporaneo che con una certa franchezza sa guardare alle contraddizioni sociali del proprio paese. Nonostante la sua poca esperienza, Yoshiko li affronta con una intensità, una sensibilità e una spontaneità piuttosto rare, coadiuvato da un gruppo di interpreti ai limiti dell’eccellenza. Grazie ad un’attenta sceneggiatura, il film evita la contrapposizione manichea fra personaggi, e qualsivoglia forma di schematismo, come bene testimonia il rapporto fra Yoshiko e Tamotsu. Sebbene le scelte della donna siano più che esecrabili, sino ad arrivare a coinvolgere il figlio nella sua ossessione religiosa – per cui tutto quel che le accade è frutto della tentazione di Satana o della volontà del Signore di metterla alla prova – costringendolo e recarsi con lei porta a porta per cercare possibili nuovi adepti, e obbligandolo ad imparare a memoria le frasi con cui presentarsi a questi (riecheggiano in queste scene del film situazioni alla 1Q84), le sue colpe sono in qualche modo mitigate dal terribile lutto provocato dalla morte del marito. Dal canto suo Tamotsu si rende più che conto del terribile dramma vissuto dalla madre e cerca fin che può di assecondarla e consolarla. Più volte, quando la vede disperata e piangente, cerca di divertirla raccontandole qualcosa di buffo che gli è accaduto. In una particolare circostanza, dopo averle detto di non poterla accompagnare nel solito giro porta a porta, a causa di un mal di pancia, la richiama poi dal balcone, sorridendole, per dirle, invece, di poterlo ora fare, perché il dolore è passato. È attraverso il suo sguardo che l’intera vicenda di Akaboshi si dipana, uno sguardo che lo accomuna a quello di altri bambini, vittime come lui di genitori che troppo facilmente si dimenticano di quello che dovrebbe essere il loro ruolo di «stelle che orientano».
Se molte scene del film, in particolare quelle drammatiche dei litigi di Yoshiko con la sorella e il leader del gruppo religioso, sono affidate ad insistiti movimenti di macchina a spalla e a ridosso del volto della donna, è invece ai campi lunghi e alla profondità di campo che il regista si affida per mettere in scena il litigio decisivo fra madre e figlio, facendo così in modo che la distanza spaziale fra i due misuri davvero tutta la lontananza che in quel momento li separa: si tratta della scena in cui, dopo un ennesimo mancato tentativo di proselitismo, la madre rimprovera il figlio per aver mal recitato le sue parole di saluto, e questi, invece, le chiede, non ascoltato, di raccontarle del giorno in cui era nato. Si è detto che il film termina col ritorno a casa di Tamotsu, dopo un abortito tentativo di fuga: un finale in qualche modo aperto, ma segnato comunque dalla matura consapevolezza del protagonista della necessità di rimanere al fianco della madre – anche solo sorridendole – per poterla aiutare. Ancora una volta un mondo salvato dai ragazzini… che più degli adulti sanno osservare e sorridere. [Dario Tomasi]
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