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Al “bar italo”

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Al “Bar Italo” avevano solo due cose buone: la simpatia e Martina. Il locale era un piccolo buco nel cuore di un quartiere popolare di Roma, il caffè era pessimo e, quando non era bruciato, era una sostanza acquosa con un retrogusto amaro. Una tragedia, insomma. Cappuccino, the della casa e quant’altro non risollevavano il buon nome del bar. Il signor Italo, l’anziano proprietario, cercava di sostituire quelle gravi mancanze con la guasconeria tipica del romano spensierato, e, la maggior parte delle volte ci riusciva.

Martina, l’altra nota positiva di quello squallido baretto, era una ragazza molto carina: capelli ricci e biondi, pelle chiara e liscia, occhi di un blu profondo , nasino all’insù e un sorriso dolce e timido. Senza nulla togliere alla simpatia del signor Italo, era lei il vero motivo per cui continuavo a frequentare quella misera bottega.

Avevo scoperto il “Bar Italo” quasi per caso, dieci mesi prima, durante una delle mie solite passeggiate rilassanti della mattinata. Ovviamente più che l’insegna, quello che mi convinse ad entrare fu la risata argentina che udì passando davanti alla porta sgangherata con su scritto “Forza Roma”, con lettere alternate gialle e rosse. Ordinai un caffè e fu proprio Martina a prepararlo. La delicatezza con cui preparò il tutto, il suo modo di poggiare la tazzina sul bancone, il suo delicato “ecco a lei”, detto con un sorriso imbarazzato e lo sguardo basso, mi convinsero a non dimenticare quel bugigattolo con l’insegna scolorita.

Il locale era piccolo, ma c’era lo spazio per tre piccoli tavolini, ognuno con due sedie. Decisi di sedermi lì a far finta di leggere uno di quei quotidiani sportivi accatastati su un tavolino, mentre, di sottecchi,  spiavo la dolce barista. Oltre al bancone – dietro il quale svettavano ritagli di giornali e foto scolorite della Roma – la postazione ad angolo della cassa, dove spesso sedeva il signor Italo, e i tavolini, c’era, nel bar, un vecchio freezer per gelati. Il fatto che del marchio stampato sopra il logoro listino dei gelati non se ne sentisse parlare da quasi dieci anni era un deterrente che di certo non spingeva i pochi avventori del locale a scegliere quell’opzione.

Mentre scorrevo con lo sguardo la serie di titoli sportivi, il signor Italo mi rivolse la parola.

<<Di che squadra è lei?>>

<<Dice a me?>> chiesi molto stupidamente, dal momento che c’eravamo solo noi tre. Poi aggiunsi: <<In verità nessuna. Non seguo molto il calcio>>

<<Non sarai mica della Lazio e non lo vuoi dire vero?>> mi chiese, passando al “tu”.

A Roma o tifi Roma o tifi Lazio. Non esistono altre squadre. Non esistono i “disinteressati”. O Atene o Sparta, è semplice.

<<No, no. Semplicemente non sono un tifoso>>

<<Tu non me la conti giusta. Vedi, Martina>> finalmente conoscevo il nome della bellissima ragazza, <<secondo me abbiamo un aquilotto nel nostro bar>>

La ragazza sorrise, poi mi fissò ed io affogai in quegli occhi blu come l’oceano.

<<Ma no, signor Italo, io credo solamente che il signore non si interessi di calcio, vero?>>

<<Come? Beh sì, sì, è così!>> arrossì.

<<Mah! E sentiamo, quale sarebbe il suo interesse?>> mi chiese, divertito, il signor Italo, ritornando a darmi del “lei”.

<<La letteratura. I libri>>

<<I libri?>>

<<Sì. Sono uno scrittore>>

<<Ah, e cosa scrive?>>

<<Racconti. Ora sto lavorando ad un romanzo, ma, sa com’è, le idee arrivano quando meno te l’aspetti!>>

Guardai Martina: mi fissava con lo sguardo perso. Mi guardava ma non mi vedeva, troppo immersa nei suoi pensieri.

<<Uno scrittore. E, scusi la domanda, guadagna bene uno scrittore?>>

<<Beh, sicuramente non questo scrittore!>> e così dicendo riuscì a conquistare la risata della dolce fanciulla.

<<E allora, mi perdoni, chi glielo fa fare?>>

<<Prima o poi tutto cambierà. Ho vinto dei premi, ma non interesso a nessuna grande casa editrice. Per ora>>

Parlammo ancora un po’, nel frattempo ordinai un altro caffè, poi dovetti congedarmi. Mi alzai sostenendo lo sguardo di Martina. Era una visione angelica. Mi avvicinai alla cassa, mettendo mano al portafogli per pagare, ma il signor Italo sorrise e fece segno di no con la mano.

<<Questa volta offre la casa, ma ad un patto: che torni presto a trovarci. Chi lo sa, magari un giorno potrà scrivere un libro su di noi. Di un po’, Martina, ti piacerebbe essere la protagonista di un libro?>>

La ragazza arrossì, sorrise e abbassò lo sguardo. Era il mio turno di parlare.

<<Tornerò, ma ad una condizione>>

<<E sarebbe?>>

<<Che mi diate del tu>> dissi, guardando anche Martina. <<Mi chiamo Santiago>>

Lei si morse il labbro inferiore e sorrise.

<<Santiago. Che razza di nome è?>> mi chiese, diretto, il signor Italo.

<<Non lo chieda a me. Lo devo ad una madre molto devota! Allora, accetta la mia condizione?>>

<<Sta bene. A presto, allora!>>

Uscendo mi strinse la mano. Guardai Martina che mi sorrideva da dietro al bancone. In fondo, il “Bar Italo” era accogliente!

Claudia, la mia fidanzata, lavorava a Parigi come interprete. Parlava correttamente cinque lingue e adesso tentava di impararne una sesta, l’arabo. Ci sentivamo ogni settimana, perché io non mi decidevo a stipulare un abbonamento ad internet e le telefonate costavano troppo. Stavamo insieme da tre anni, ci eravamo conosciuti ad una protesta durante gli anni dell’università. Lei era una leader della manifestazione, dalle cui labbra pendevano le decine di studenti che la ascoltavano. Io ero il tipico alienato della situazione: ero finito lì per sbaglio, non sapevo per cosa si manifestasse, e, soprattutto, mi trovavo a disagio a stare in mezzo a tutte quelle persone.

Dai tempi dell’università ne era passata di acqua sotto ai ponti: Claudia, che già parlava benissimo l’inglese e il francese, lingua nativa della madre, aveva imparato anche lo spagnolo ed il russo. Io, invece, una volta laureato, di tutte le infinite e tortuose strade che avrei potuto scegliere, optai per quella più disastrosa ed economicamente nulla: la letteratura.

Negli ultimi mesi, sentivo, però, che il rapporto con Claudia era mutato. Lei era sempre impegnata per una traduzione o un interpretariato, quando non frequentava le lezioni di arabo. Non era tornata nemmeno per l’estate, ed, ormai, erano mesi che non ci vedevamo. Io avevo trovato una nuova famiglia, un nuovo gruppo, quello del “Bar Italo”, che aveva deciso di adottarmi e di indottrinarmi nella fede giallorossa. Sebbene fossi convinto che tutte le loro forze profuse nel tentativo di un mio battesimo calcistico sarebbero state vane, ero felice di non essere più solo. Andavo al bar almeno tre volte al giorno, e passavo lì all’incirca un’ora e mezzo ogni volta. Avevo conosciuto Ennio il minuto postino di zona, la Sora Gina, una vecchietta sempre allegra che dilapidava metà della sua pensione in “gratta e vinci”, il Sor Ettore, il pensionato del bar, segretamente innamorato della Sora Gina, e Dante, il grasso e sboccato proprietario della trattoria “Noàntri”. A noi si univa spesso Er Beccamorto, un uomo magro e bianco cadaverico, che sembrava dovesse spirare da un momento all’altro.

Eravamo una allegra compagnia, ma tra tutti io preferivo Martina. Aveva un paio d’anni meno di me, ed era bella come una giornata primaverile dopo un lungo periodo di pioggia. In quei lunghi dieci mesi eravamo diventati inseparabili, appena entravo nel bar lei preparava due caffè e veniva a sedersi con me, per chiacchierare. Mi chiedeva a che punto fossi col romanzo e se avessi inventato un personaggio che le somigliava. Io le dicevo che un personaggio a lei ispirato sarebbe potuto essere solo una di quelle splendide principesse delle favole, che dormivano per cent’anni, prima che il bacio del loro principe azzurro le svegliasse. Lei rideva, arrossiva e posava una mano sulla mia, dicendomi di fare il serio. Una volta mi confidò che il suo sogno più grande era diventare una pittrice. Io allora le chiesi perché non avesse mai fatto domanda per entrare in una scuola d’arte, e lei mi rispose che non si riteneva così brava. Le chiesi allora di poter vedere quei disegni, per poterle dare un consiglio, ma lei sorrise e sussurrò: <<Se farai il bravo, un giorno te li farò vedere>>. Spesso andavamo al cinema insieme, o alle mostre dei grandi pittori, o semplicemente a fare lunghe passeggiate, durante le quali parlavamo di tutto ciò che ci veniva in mente. Ogni volta, però, la riaccompagnavo sempre al bar. Non sapevo dove abitasse, ma nemmeno glielo domandavo, semplicemente pensavo che se non voleva essere riaccompagnata a casa voleva dire che c’era una ragione. Probabilmente se ne vergognava, o ancora più semplicemente, non voleva che sapessi dove abitasse.

I mesi passavano in allegria, la strana comitiva che formavamo era ormai un solo organismo con tante caratteristiche diverse, che si muoveva come un eterno ubriaco.

Ennio arrivava al bar a mezzogiorno preciso, dopo aver terminato tutte le consegne di zona. Era basso e magro, ma i suoi piccoli occhi erano in perenne movimento. Subito dopo di lui arrivava Dante, il quale, dopo aver aperto la trattoria, ne affidava la gestione alla figlia e al genero, per poi tornare di tanto in tanto per intrattenersi con i clienti abituali. La Sora Gina e il Sor Ettore arrivavano insieme. Lui sempre elegante, i capelli grigi pettinati all’indietro, gli occhiali scuri che coprivano gli occhi di un celeste chiaro e i guanti di pelle quando faceva freddo. Lei si definiva una “figlia di Mamma Roma”. Da giovane era stata levatrice, e forse a questo erano dovuti, in larga parte, i suoi modi decisi. Era tozza e cicciottella, ed il suo viso non poteva non ispirarti allegria. Per ultimo, quando si faceva vedere, arrivava Er Beccamorto. Si trattava, effettivamente, di uno scheletro che camminava: la pelle era talmente tesa che sembrava potesse strapparsi da un momento all’altro, gli occhi erano sempre circondati da profonde occhiaie. Il viso bianco cadaverico ti portava a darlo per spacciato. E, infatti, Dante e il signor Italo, quando non lo vedevano arrivare, scommettevano sul modo in cui poteva esser morto. Era sempre a questo punto che interveniva la Sora Gina per profetizzare: <<Ma che state a dì, quello ce seppellirà a tutti, v’o dico io!>>.

Il signor Italo era un vecchietto piccolo ma vigoroso, con una folta capigliatura bianca, che vestiva sempre camicie di vari colori. Si diceva ne avesse un guardaroba pieno! Quando chiedeva il mio parere o, semplicemente, voleva prendermi in giro, mi chiamava “lo scrittore”, oppure “il signor scrittore”.

I miei giorni proseguirono festosi, sino a quando, una sera, squillò il telefono di casa. Era Claudia. Piangeva e tirava su col naso. Ci misi qualche minuto per farla calmare. Mi raccontò che il suo contratto era terminato ma che, a causa di “carenze di fondi”, come le avevano definite, non glielo potevano rinnovare. Non era riuscita a trovare nient’altro, era arrabbiata, stanca e triste. Mi disse che le avrebbe fatto bene passare un po’ di tempo insieme a me. Sarebbe ritornata tra due giorni, il tempo di sistemare le ultime cose, se per me andava bene. Le dissi che sarei stato felice di vederla, ma, in realtà, non era così. Ero consapevole che il ritorno di Claudia sarebbe stata una scheggia impazzita in quella mia vita perfetta.

Il giorno dopo andai al bar, ma rimasi in silenzio per tutto il tempo.

<<Il nostro scrittore sta pensando ad un nuovo libro>> mi prese in giro il signor Italo. Non mi chiamava mai per nome. Pensavo, anzi, che si fosse dimenticato come mi chiamassi e che per lui ero diventato, semplicemente, Lo Scrittore.

Martina arrivò in ritardò quel giorno. Mi chiese cosa avessi, ma le risposi vagamente. Il pomeriggio restai a casa, steso a letto, a chiedermi perché la vita dovesse essere così complicata. Arrivai al “Bar Italo” solo all’orario di chiusura, quando tutti erano già andati via. Tutti tranne Martina. Mi fece entrare, quindi abbassò la saracinesca e chiuse la porta a chiave. Preparò due caffè, li posò sul bancone e mi fissò.

<<Cos’hai? Stamattina sei stato silenzioso. A pomeriggio non sei venuto, e ti presenti solo ora all’orario di chiusura. Sei strano>>

Le dissi che ero confuso, che mi esplodeva la testa, che avevo mille domande e nessuna risposta che…

Non mi fece finire la frase. Mi abbracciò forte, ed io mi ritrovai il viso immerso tra i suoi ricci. Sentivo il suo cuore battere forte. Ricambiai l’abbraccio e la strinsi a me. Mi disse di stare tranquillo, che qualunque cosa fosse, sarebbe andata bene.

La stretta si fece meno intensa, e quando ci separammo non potei fare a meno di assaporare quelle labbra così delicate che circondavano quel sorriso di cui ero follemente innamorato. Ci baciammo a lungo. Dolcemente come fosse il primo bacio per entrambi. Quando le nostre labbra si separarono vidi i suoi occhi brillare, e lei, sorridendo, mi disse:

<<Ce ne hai messo di tempo, eh? Sono passati “solo” dieci mesi!>>

Sorrisi. Il mio cuore era più leggero ora, e poteva galoppare libero e fremente d’amore. La mia testa era incredibilmente vuota di pensieri e piena dei nostri ricordi. La baciai. Poi ancora e ancora, fino a quando lei mi prese per mano e mi condusse nel retrobottega. Qui c’era una stanzetta in cui non ero mai stato. C’era un letto, un comò con sopra uno specchio, una stufa ed una valigia, piena di vestiti, aperta accanto alla porta.

<<Tu vivi qui?>> le domandai, non riuscendo a nascondere lo stupore e la tristezza che provai nel vedere quella misera stanzetta.

<<Non posso permettermi di pagare una stanza, e il signor Italo mi ha concesso di stare qui>>

<<Ma i tuoi genitori lo sanno che vivi così?>>

<<Sono morti. Ho solo una sorella più grande che vive a Parigi, ma lei crede che io abiti in un appartamento>>

La guardai e non seppi trattenere le lacrime. Non volevo avere compassione di lei, non volevo trattarla come la piccola fiammiferaia della favola, ma la forza e la tenerezza di quella ragazza avevano fatto breccia nel mio cuore.

Martina capì e, in silenzio, baciò le mie lacrime, quindi mi spogliò. Io la spogliai e la accompagnai verso il letto. I nostri corpi si unirono naturalmente, come se fossimo stati creati per vivere sempre così. Le sue labbra erano morbide, così come il suo corpo, delicato e profumato. Ci addormentammo stretti l’un l’atra, come fossimo un solo corpo, una sola vita.

Sarei rimasto così fino alla fine dei miei giorni, ma le prime luci dell’alba mi costrinsero a tornare alla fredda realtà di quella umida stanzina, nel retro di uno squallido bar.

Per tutto il giorno ci scambiammo occhiate complici. Quando lei mi sedeva accanto mi accarezzava e, di nascosto, mi dava un bacio fugace. Gli altri facevano finta di niente. Eravamo giovani e innamorati, cosa c’era di sbagliato?

Quando andai a prendere Claudia all’aeroporto avevo la stessa espressione di un condannato a morte. Lei non se ne accorse, mi si gettò al collo e iniziò subito a raccontarmi del viaggio. Per tutto il tragitto mi raccontò della sua vita a Parigi, del suo lavoro, dell’arte, di Notre Dame, del suo appartamento e delle lezioni d’arabo.

Io facevo finta di ascoltarla, ma avevo un groppo in gola. Era veramente la fine di tutto?

Quando arrivammo nel mio minuscolo appartamento ebbe di che lamentarsi riguardo alla pulizia, al disordine e agli spazi eccessivamente ristretti. Dopodiché iniziò a interrogarmi sul perché fossi così magro e deperito. Passai quelle ore in uno stato febbrile. Avrei voluto scoppiare a piangere, urlare, sbattere la testa al muro, scomparire.

<<Questa sera mi porti fuori a cena, va bene?>>

Al ristorante rimasi in silenzio a fissare il piatto che avevo davanti. Cenavamo in una piccola trattoria, dove il cibo non era male e i prezzi erano adeguati alle tasche di uno scrittore squattrinato.

Avevamo il tavolo vicino alla vetrata che si affacciava sulla strada. Il posto sarebbe stato abbastanza romantico, con la giusta compagnia.

<<Che hai? Sei così silenzioso. Non sei più abituato a parlare con qualcuno, vero?>>

Mise la sua mano sulla mia. Mi sentivo in trappola. Ero invecchiato di dieci anni in un sol giorno.

<<Vedrai che tutto cambierà, d’ora in avanti>> mi disse sorridendo maliziosamente.

La guardai senza capire, ma prospettando il peggio.

<<Ho pensato che, visto che non ho più il mio lavoro, e che per un po’ posso prendermi una… diciamo una vacanza, beh, perché non ci sposiamo? Non subito, non fare quella faccia, però iniziamo a pensare ai preparativi, sarà divertente, vero?>>

Sorrisi. Ma era un sorriso di incredulità, di paura, di follia. Lei lo scambiò per un cenno d’assenso e mi abbracciò, riempiendomi di baci.

In quel momento vidi che Martina era lì fuori e ci guardava inorridita. La fissai a lungo, incapace di muovere un solo muscolo, di respirare. Lei scosse lentamente il capo e si portò una mano alla bocca, come se avesse assistito a qualcosa di tremendo. Quindi scappò via.

Sentii il cuore, dentro di me, andare in frantumi. Ero morto, ma costretto a vivere.

Il giorno dopo lasciai Claudia a casa con una scusa banale e corsi al bar. Martina mi vide e scappò nel retrobottega. Io la seguì senza salutare gli altri avventori e sentì la voce di Dante che diceva “e che voi fa’, so’ regazzi e so’ ’nnamorati!”.

La raggiunsi nella sua camera e l’afferrai per un braccio.

<<Lasciami, lasciami. Mi fai schifo!>>

<<Non è come credi, lascia che ti spieghi>>

Le raccontai tutto, le parlai di Claudia, di come era spuntata così, all’improvviso, senza che me l’aspettassi. Le dissi che non l’amavo, che io amavo solo lei, le chiesi scusa per ciò che aveva visto, mi inginocchiai e le cinsi le gambe con le mie braccia chiedendole perdono. Ero suo schiavo, avrei lottato per riconquistare il suo amore, e se non fosse bastato mi sarei umiliato, avrei rinunciato alla mia dignità per riconquistarla.

Parlò, ma lo fece con voce glaciale, distaccata. Mi disse che ero un verme, che le facevo schifo. Piangeva di rabbia. Mi disse che qualche giorno prima – quel giorno, il nostro giorno – aveva fatto domanda per entrare ad una scuola d’arte di Parigi. Quella mattina aveva avuto la risposta. Ce l’aveva fatta, era entrata. Ci sarebbe andata. All’inizio aveva pensato di non accettare se fosse stata presa, ma poi aveva assistito alla scena del ristorante e tutto era cambiato.

Io ero ancora inginocchiato ai suoi piedi, abbracciato alle sue gambe. Piangevo e le chiedevo di perdonarmi.

<<Alzati>> mi disse. Io eseguì il suo ordine. Mi diede uno schiaffo, forte, rabbioso, che mi lasciò senza respiro per qualche secondo.

<<Domani partirò con l’aereo delle 16. Se è vero quel che dici, se è vero che mi ami, sarai lì, partirai con me>>

Era un’altra persona, non più la timida ragazza che serviva il caffè, ma la caparbia inquilina del retrobottega di un bar, che si era confrontata spesso con le difficoltà della vita, uscendone sempre sconfitta.

Le promisi che non avrei tardato. Sarei stato lì e avremmo iniziato una nuova vita insieme.

Quella sera stessa dissi tutto a Claudia. Le dissi che era finita, che non l’amavo da tanto tempo, che eravamo solo due estranei legati da un sottile ricordo, come due persone che si erano conosciute durante un viaggio. Lei scoppiò a piangere, urlò che non era vero, mi insultò e, infine, mi disse di andarmene. Nonostante l’appartamento fosse il mio, misi poche cose in valigia e mi chiusi la porta alle spalle.

Passai la notte vagando senza meta, come un fantasma, seppure emozionato al pensiero di un nuovo inizio. Sarebbe stato difficile, ma alla fine sarei riuscito a farmi perdonare.

La mattina, all’orario d’apertura, mi presentai al bar. Bussai alla saracinesca, ma nessuno rispose. Dovetti aspettare un’ora perché arrivasse il signor Italo ad aprire. Senza salutare gli chiesi di Martina, e lui rispose che era andata via.

<<Non è possibile, mi ha detto che l’aereo partiva questo pomeriggio, dovevamo partire insieme, non è possibile>>

Vedendomi in quello stato, il signor Italo mi fece entrare, mi porse una sedia e andò dietro al bancone. Stavolta, però, mi servì un bicchiere di whiskey, dandomi una pacca sulla spalla. Lo mandai giù tutto d’un sorso, poi guardai il vecchio proprietario con aria sconfitta. Lui sedette davanti a me e, tenendo la mano appoggiata alla mia spalla mi disse:

<<Senti, Santiago,>> allora lo conosceva il mio nome, <<io non so cosa hai combinato, e non mi interessa, non so’ fatti miei. Però Martina era furiosa, m’ha ringraziato di tutto e m’ha detto che se ne sarebbe andata. Non so dove, davvero. M’ha lasciato questa per te. Credo sia una lettera, non l’ho aperta>>

Annuì e lo ringraziai. Mi versò un altro bicchiere di whiskey e, dopo avermi dato un’altra pacca, si alzò e si allontanò, per lasciarmi leggere quelle parole.

In realtà non si trattava di una lettera, ma di poche righe:

adesso anche tu sei solo e disperato come lo ero io prima di innamorarmi di te. Ora non provo nulla, solo tanta rabbia, ma tanto ci sono abituata, passerà”.

Non c’era firma, né un indirizzo al quale avrei potuto trovarla. Andai nel retrobottega, nella sua stanza. Aveva portato via tutto ciò che era suo. Mi prese lo sconforto, volevo piangere, ma i morti non piangono.

In un cassetto, però, trovai una lettera scrittale da sua sorella, alla fine della quale c’era scritto un indirizzo. Sotto era stato aggiunto “se ti stancherai di Roma, qui ci sarà sempre posto per te”. Corsi all’aeroporto e comprai un biglietto per Parigi, solo andata.

Una volta lì girai ininterrottamente a piedi per due giorni per trovare l’indirizzo di casa della sorella di Martina. Quando lo trovai, suonai casa per casa, ma, quando, infine, trovai una ragazza italiana, questa mi disse che la sorella di Martina, che era stata una sua coinquilina, aveva cambiato casa qualche mese prima, e che lei l’aveva persa di vista e non aveva più il suo indirizzo. Le chiesi se conosceva un qualche modo per rintracciarla, un nome sull’elenco telefonico, il luogo di lavoro, ma lei si strinse nelle spalle e mormorò che le dispiaceva.

Mi appostai presso tutte le più famose scuole d’arte di Parigi, sperando di trovare lì Martina, ma, dopo un mese di stenti e di fame, decisi di tornare a Roma, con la morte nel cuore. Probabilmente Martina aveva appositamente lasciato lì quella lettera per farmi sperare e soffrire ancora.

Al “Bar Italo”, non vado quasi più, ormai. Qualche volta passo a salutare il vecchio proprietario che mi offre sempre uno dei suoi pessimi caffè. Dante si è pensionato, ha lasciato la trattoria e si è trasferito in campagna. Il Sor Ettore e la Sora Gina hanno, infine, deciso di sposarsi, e ancora li incontro, di tanto in tanto. Anche Ennio, il postino continua a prendere il caffè lì, ma ora si lamenta perché, con l’avvento delle nuove tecnologie, consegna solo bollette e nessuna lettera. E’ un romantico, a modo suo. Alla fine Er Beccamorto è passato a miglior vita, ma non per cause naturali, come tutti avrebbero scommesso: è stato investito mentre attraversava sulle strisce pedonali, roba da matti!

In quanto a me continuo a fare lo scrittore, ma ora guadagno più di prima. Non ho più visto Martina, anche se è sempre presente in tutti i miei sogni. Non passa giorno che non mi chieda che fine abbia fatto, in che città sia ora, se mi abbia perdonato. Se sia ancora innamorata di me.

Ovunque sei, Martina, qualunque vita tu stia vivendo ora, sappi che questo racconto è per te.



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